Quotidiani cartacei impilati

La guerra in Ucraina ha dissolto l’illusione del post-giornalismo

Il concetto di “fine della Storia”, introdotto nel 1992 da Francis Fukuyama nel saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, negli anni si è evoluto/ridotto/trasformato in un motto, in uno slogan facile, mnemonico. Si tratta, o si trattava, dell’idea secondo cui la fine del XX secolo avrebbe garantito la sintesi tra le istanze che fino al giorno prima (fino alla caduta del muro di Berlino) convivevano conflittualmente (in particolare capitalismo neo-liberale e comunismo d’impronta sovietica). La fine di un processo inteso come un succedersi di conflitti, ideologici e militari, intesi al guadagno di una supremazia tecnica, territoriale, morale.

Ebbene, nei manuali di scienza politica, ma anche in quelli di letteratura contemporanea e di filosofia politica, si legge che l’11 settembre 2001 avrebbe demolito questa idea; che la guerra contro Saddam Hussein, che ha riportato in campo concetti desueti, come la lotta Bene-Male, Occidente-Oriente, ci avrebbe svegliati da questa sorta di sonno, di illusione collettiva, dallo spontaneo convincimento di essere giunti al culmine evolutivo di una storia deterministicamente e teleologicamente disposta a un fine.

Ritorno della storia e fine del post-giornalismo

Bene, se questo è vero, e se il 24 febbraio del 2022 ha inferto una sterzata ulteriore nella direzione dell’abbandono dei comodi panni del determinismo storicista, possiamo augurarci che abbia anche messo una croce sopra alla più perniciosa conseguenza della proliferazione di una mentalità post-storica, vale a dire la nascita di un imbelle, inutile post-giornalismo. Dove con “post-giornalismo” intendiamo la fede in un giornalismo de-coscienziato, totalmente obiettivo e quindi oggettivato, cioè reificato, privato dell’ideologia e di una funzione sociale, fatto esclusivamente di dati e di computer, di tweet e di like. L’idea che questo mestiere possa essere confinato a WhatsApp, social, visualizzazioni. Che si possa comodamente portare avanti dalla scrivania, anzi meglio dal divano di casa.

La crisi ucraina, e la conseguente invasione decretata e attuata dal regime totalitario che Vladimir Putin ha instaurato nella Federazione russa, ha costretto tutti alla retromarcia. Ci ha avvertiti circa l’importanza del lavoro sul campo, del reportage, dell’intervista, ci ha fatto ri-apprezzare il ruolo sociale e conoscitivo dei media tradizionali, dei giornali quotidiani, cartacei, materiali. Ci ha ricordato che esistono ancora inviati coraggiosi, fotografi di guerra che si alimentano e ci alimentano del racconto e della testimonianza. Ci ha ricordato che il giornalismo può essere mezzo di verità e strumento di propaganda.

Una guerra paradossalmente invisibile

In buona parte, tali acquisizioni sono il frutto di una caratteristica paradossale che sembra contraddistinguere la guerra russo-ucraina per come configuratasi almeno nelle sue fasi iniziali, vale a dire la sua invisibilità, o comunque la sua scarsa esposizione all’interno dei media convenzionali. Eppure quella che si sta combattendo a pochi chilometri da Kyiv, nelle strade da Dnipro a Zaporizhzhja, a Bucha, fino a qualche giorno fa a Kherson, è una guerra antica, tradizionale, per certi versi “medievale”, lontana dall’idea di guerra iper-tecnologica, carsica, che avevamo ormai introiettato. Si affrontano due eserciti con le rispettive fanterie e i mezzi corazzati, l’esercito russo e quello regolare ucraino, le cui fila sono innervate dalle cellule di Difesa territoriale costituitesi sul campo dopo gli appelli del presidente Zelensky.

Ma le immagini di questi scontri in campo aperto nella steppa fangosa e innevata, o quelle dei bombardamenti nei centri abitati, sono state a lungo una rarità assoluta; e non potrebbe essere altrimenti, visto che l’aggressore, la Russia, continua ostinatamente a parlare di “operazione militare straordinaria”, obliterando la realtà con disonorevole acribia.

In una società popolata da immagini (per quanto, come è stato dimostrato, anche estremamente verbosa), in cui tutti siamo diventati come Tommaso l’Apostolo e abbiamo bisogno di “vedere per credere”, andare a cercare le immagini di questa guerra invisibile, e trasmetterne il senso e l’interpretazione “al di qua” della cortina, è un dovere sociale, un sacro servizio recato alla Verità. Le immagini che ci arrivano, e che ci vengono raccontate, sono quelle che fotografano gli effetti della devastazione, che intercettano il momento successivo al dramma, il silenzio dopo il colpo di mortaio, l’istante infinito delle lacrime e del sangue. Incendi, macerie, corpi, brani di cemento e di carne.

A lezione di giornalismo

Restare lì, restare fermi mentre ci si muove non è un dovere, è un atto di coraggio e determinazione. Materie in cui sta impartendo più di una lezione, per citare un nome su tutti, la giornalista dell’«Espresso», de «La Stampa» e di «La7» Francesca Mannocchi, che insieme al compagno fotografo Alessio Romenzi racconta tutti i giorni le atrocità di un conflitto meschino, che si combatte fra le strade ma anche nelle campagne, fatto di polistirolo e molotov, di treni e coperte, ma anche e soprattutto di una desertificazione psicologica che precede quella fisica.

Mettere sé, cioè il proprio corpo, fra i due campi, nell’epicentro della Storia è un gesto rivoluzionario nel suo antico conformismo; chiedere alle persone come stiano, parlare con loro, decidere dove trascorrere la notte insieme a loro “sa” di Novecento, ma di quel Novecento che ci ha trasmesso la lezione più importante, e cioè che la vita umana è un valore inalienabile.

Un nuovo giornalismo corporeo e soggettivo

La disinformazione fabbricata dal Cremlino ha fatto il resto, rendendo fondamentale la testimonianza, il racconto dei fatti. “Per i fatti esiste internet, i giornali pensino all’analisi, all’approfondimento ex post”, sostengono (sostenevano?) i fautori del post-giornalismo. Come se due facoltà così inestricabilmente connesse potessero essere artificiosamente separate. Ma il dramma che si sta consumando alle porte della nostra Europa, anzi nel bel mezzo di essa, ci sta riportando coi piedi sulla terra: il racconto dei fatti è il primo imprescindibile ingrediente del giornalismo che si rispetti.

Eppure, contro intuitivamente, il racconto dei fatti non prescinde dalla soggettività, non può farlo, nel contesto della guerra. Dire “io” diventa una mossa che, quando si smarca dal rischio del patetismo, sfata un altro mito, quello di un giornalismo asettico, refertuale. Che non può ma soprattutto non deve esistere, se si vuole far fronte alle ingiustizie sociali, alle sperequazioni, a quelle drammatiche divisioni che un conflitto porta a galla meglio (purtroppo) di ogni altro evento storico. Mettere il proprio corpo sotto alle bombe è un gesto utile a riaffermare tutto ciò.

La concretezza e la materialità dei quotidiani

È ancora a un’idea di concretezza, di materialità, che si lega poi l’ultima grande acquisizione di questi giorni: il ruolo dei quotidiani, nella loro veste cartacea. Il percorso da casa all’edicola, il loro acquisto, l’uso di denaro contante per appropriarsene, è già di per sé un gesto attivo, propositivo, di tensione verso una conoscenza che attraverso lo schermo recepiremmo assai più passivamente.

In più, ogni giorno ma ancora più durante una guerra, un giornale si fa ricettacolo di scelte editoriali che non annichiliscono, anzi stimolano e potenziano la libertà intellettuale, la coscienza critica del lettore: le scelte di layout e impaginazione sono il frutto di una scelta, spesso perché no ideologica, ancora prima che di marketing, che merita di essere approfondita e problematizzata. Il rapporto testo-immagini, poi, acquista una valenza inattingibile per qualsiasi portale online, e il binomio fotografia-diario riacquista il significato fototestuale di “ecosistema”.

Insomma, nella sua assurda bestialità, la guerra in Ucraina ci ha consegnato la definitiva crisi dell’idea di fine della storia e del suo corollario più insopportabile, il post-giornalismo. Ci ha insegnato che il vero giornalismo è quello che si decide a respingere quella “comodità” che secondo Eugenio Montale è la cifra distintiva della civiltà di massa contemporanea. Ci ha restituito l’essenza di un mestiere che se resta declinato nella sua versione attiva, antica, tradizionale, resta necessario; altrimenti, è destinato a morire, trascinando con sé, nel baratro, buona parte della nostra amata civiltà.

 

FONTI:

F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Utet, 2020

G. Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto, Mimesis, 2020

 

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