Alla finestra

Sotto un cielo dominato da minacciosi nuvoloni, col vento che con irruenza invitava i viandanti a rifugiarsi sotto qualche tetto, passeggiava spedito un signore, timoroso dell’imminente acquazzone. Cercando di farsi sempre più piccolo per ingannare il freddo, con la testa rannicchiata sul proprio petto, le mani in tasca, avanzava per un vialone che iniziava a spopolarsi. Alti palazzi si ergevano costeggiando la via e offrivano comodi rifugi, ma il signore sembrava ignorarli come ostinato a rincorrere esigenze che lo richiedevano altrove. Il vento, come un’interminabile onda, lo travolgeva cercando di trascinarlo via con sé, ma caparbiamente egli si opponeva e perseverava verso la sua meta, alzando di tanto in tanto lo sguardo per controllarne la lontananza. Fuggiva dalla pioggia, sì, giacché la comparsa delle prime gocce lo agitarono: subito il viso si contorse in una smorfia di disgusto e il passo accelerò. Gradualmente aumentava l’intensità della pioggia e così l’agitazione del signore. Dalle cadute timide delle prime gocce poi la cascata di pioggia imperversò, costringendo il signore ad arrestare il passo e i suoi propositi; si precipitò sotto un esile albero che nonostante le sue ridotte dimensioni risultava un modesto riparo. Immobile, senza non poter far altro che guardare la sua disfatta manifestarsi prorompente, egli sbuffava e imprecava alla sfortuna. L’adrenalina della corsa, ma soprattutto della sconfitta, come risposta istintiva lo scosse e lo obbligò a qualsiasi movimento corporeo purché non restasse più fermo; il dolorante peso della verità assume più crudezza quando mente e corpo si fermano. Lentamente la frustrazione scemò finché non lo abbandonò, portandosi via con sé tutte le sue energie. Quando la frenesia cessa di stordire mente e corpo, ecco che subentra la cocente impotenza, la passività; come nelle barche a pezzi che in seguito a una tremenda tempesta si lasciano trasportare sfinite dalle acque placide. NADIA – Alla finestra

Ed egli, mirando con occhi stanchi ora il cupo cielo, ora i palazzi circostanti, ora le gocce scoppiare al tocco del suolo, galleggiava nella sua più triste marea. Proprio in questa situazione, fra un’occhiata di qua e di là, si accorse di qualcosa che lo riportò a galla prima che affogasse nel suo umore nero: una finestra, differentemente da tutte le altre, rimaneva aperta e a essa si affacciava una persona che nonostante la pioggia lo bagnasse, continuava a fissare fuori. Era davvero strano. Ma la cosa che maggiormente incuriosì e allo stesso tempo inquietò il signore fu l’assurda somiglianza che riscontrò fra sé stesso e quel personaggio. Era identico, sembrava un sosia. Invaso dall’incredulità, egli continuava a fissare smanioso il suo sosia, cercando di convincersi che non si trattasse di un’allucinazione. Assorto nell’esamina si era pietrificato come prima, ma stavolta percorso da un’insolita sensazione di angoscia. Sì, c’era qualcosa che lo turbava enormemente, ma non era tanto il fatto dell’estrema somiglianza, o il fatto che fosse l’unico a restare affacciato alla finestra durante il temporale, ma era senza dubbio l’espressione che assumeva il suo volto. Quell’individuo lo guardava fisso, con occhi enormi, spalancati, che sembravano volessero urlare ciò che la bocca serratissima non aveva intenzione o non era capace di fare. Era anch’egli immobile, non muoveva un muscolo; sembrava terrorizzato, preso da un tremendo sconforto che gli impediva qualsiasi mossa. Forse in quel misterioso individuo si era azionata la stessa reazione del signore per strada. Era come se i due fossero intrappolati in un gioco di riflessi. Forse entrambi pensavano di essere vittime di un brutto scherzo della vista, o del cervello. E così continuarono a fissarsi senza fare alcunché, in attesa che un movimento dell’altro, o un avvenimento esterno, avesse interrotto una buona volta quell’assurdità. “Chi è quello? Come fa ad assomigliarmi così tanto… è un mio riflesso? Ma come? No no… è impossibile… allora chi è?” si tormentavano sicuramente con questi pensieri i due signori che continuavano a osservarsi, come due sfidanti che si apprestano intimoriti a un duello mortale. Chissà per quanto tempo avrebbero continuato così.

Per fortuna, l’impazienza porta gli impauriti a compiere anche il minimo gesto pur di rompere quella opprimente attesa. Così, il signore per strada prese a muovere le mani in modo del tutto casuale in modo da verificare se il sosia, replicando gli stessi gesti, fosse veramente un riflesso. Egli non mosse un dito; rimase lì, fermo nella sua stessa posa e con la stessa espressione. Per un momento il signore si rallegrò di ciò. Ma ecco subito che ricomparì il timore e l’incertezza: “Allora chi è quel tizio? Perché mi continua a fissare? Cosa vuole da me?” pensava insistentemente, tanto che la sua paura si materializzò nei lineamenti del suo viso. Ma a volte l’ansia più grande stimola le scintille del coraggio che, una volta esploso, si scatena senza alcun freno. “Ehi! Tu! Perché continui a guardarmi? Cosa vuoi?” urlò il signore più forte che potè, puntando il dito contro il signore alla finestra, come per mostrare la causa del suo malessere, colui che tanto lo tormentava ingiustamente. Non ottenne risposte. L’imperturbabile signore alla finestra non ebbe neanche una reazione fisica: rimase immobile, sempre rigido e dal volto colmo di tristezza, come se il dolore che provava non gli permettesse di sentire i suoni provenienti dalla realtà che fissava con tanta pena. “Allora? Sei sordo o cosa? Guarda un po’ te questo!” si infuriò il signore che non tollerava che le sue richieste, i suoi lamenti, venissero divorati da un ostinato silenzio. Si agitò, completamente in balia della rabbia e frustrazione. Girava come una scheggia impazzita intorno all’albero, gesticolando, parlando convulsamente con se stesso, in cerca di capire come risolvere la questione. “Ora, se non mi rispondi entro 10 secondi vengo là! E vedrai… vedrai le conseguenze… Anzi, no, devi rispondere immediatamente, adesso! Se no, ti giuro… vedrai!” urlò il suo ultimo avvertimento. Ma niente, ancora nessuna reazione. Non si sa per quale motivo lo aveva minacciato di raggiungerlo dov’era, di presentarsi davanti a lui faccia a faccia. La rabbia, che sia con le parole o con il fisico, ha bisogno di un oggetto su cui riversare il proprio impeto; in questo caso al signore non bastava più inveirgli contro e sentiva l’ardente necessità di mettergli le mani addosso.

Il signore rimase fedele alle sue parole e, dopo aver gridato “Ti ho avvertito!”, si scagliò inferocito contro la porta del palazzo, come se la volesse buttar giù con le proprie mani. Fortunatamente la trovò già aperta; la spinse con tanta forza che sbatté contro il muro facendo un rumore spaventoso. Salì come una furia le scale, diretto verso il quarto piano, dove era sicuro si trovasse il signore della finestra. Era entrato con tanta veemenza, trasportato dall’ira, che non si era nemmeno chiesto come poteva essere possibile raggiungere l’altro signore senza sapere in quale appartamento abitasse; infatti, appena arrivato al quarto piano, si rese conto della fallacia del suo piano. Ma quell’imprevisto non si rivelò insormontabile, anzi fu una dimenticanza di alcun rilievo. Di fatto il signore si ritrovò davanti a tre porte di tre appartamenti diversi, due delle quali erano serrate, mentre una, quella rivolta frontalmente al signore, era socchiusa. Per qualche secondo rimase lì fermo, come se la furia che l’aveva spinto a rotta di collo per quei quattro piani si fosse improvvisamente dissolta, lasciandolo così privo di energie e in balia del timore. Ma come il disperato suicida che giunto al momento conclusivo, anche se tergiversa, conclude a ogni costo il suo proposito, così il signore si decise ad avventurarsi nell’appartamento.

Aprì la porta e ciò che vide inizialmente lo rasserenò, anche se solo per poco: un enorme salotto gli si presentava dinanzi, adorno di graziosi e raffinati mobili, con numerosi quadri dalle dimensioni svariate, disparati strumenti musicali e librerie folte; sembrava il salotto di un intellettuale amante dell’arte e del sapere. Il signore si stupì di quell’atmosfera artistica, tanto che rimase a osservare ammaliato la stanza, quasi dimenticandosi il reale motivo per cui era corso lì. Ma presto rinvenne, e si mise a cercare con lo sguardo colui che era stato la causa del suo collerico stato. Nel salotto non vi era, ma guardando di fronte a sé il signore si accorse della finestra aperta, la stessa da cui quello strambo l’aveva fissato per eterni minuti. Sì avvicinò cautamente, in conflitto tra la curiosità e l’ansia. Si sporse dalla finestra e gli si aprì dinanzi un tristissimo panorama: alti palazzi grigi si alzavano e si distendevano infiniti come se non finissero mai, le strade deserte, gli alberi spogli, il cielo nero, e quella pioggia, quella pioggia malinconica che cadeva come corpi morti abbandonati dal cielo. Senza neanche accorgersene, il suo volto, dalla foga incontrollata, mutò nella tristezza più profonda. Guardava a occhi spalancati quel ritratto di morte come se stesse assistendo a una catastrofe, alla distruzione universale, alla fine; lui, impotente, misero umano, cosa ci poteva fare? Una lacrima solcò la sua guancia e si perse tra le altre gocce destinate al suolo. Forse avrebbe continuato per l’eternità a piangere il vuoto che pian piano lo stava inghiottendo, finché il suo sguardo non si accorse di un uomo che per strada camminava veloce per scappare dalla pioggia, e si posò vorace su di lui, seguendolo in ogni suo movimento. L’uomo in strada, fermatosi sotto l’albero, si accorse dello sguardo che pesava su di lui e si indispettì. Ma il fatto che fece più indisporre l’uomo in strada fu l’inquietante somiglianza fra quello strambo alla finestra e sé stesso.


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