“Ancora una volta”: Ryusuke Hamaguchi torna offline

È ancora possibile immaginare un mondo offline? Un mondo in cui l’umanità sia stata costretta al ritorno a metodi quasi arcaici quali la posta e il telegrafo? Forse sì. O, quantomeno, è questo il punto di partenza scelto da Ryusuke Hamaguchi per Ancora una volta, terzo e ultimo episodio del film Il gioco del destino e della fantasia, rilasciato nell’agosto 2021 e vincitore dell’Orso d’argento al 71° festival del cinema di Berlino. Il regista giapponese, principalmente noto alle cronache per il fresco candidato all’Oscar Drive my car, organizza una narrazione tripartita e sfrutta Ancora una volta per elaborare una riflessione circolare, volta a intersecare passato e presente in un continuo gioco di rimandi.

 

Una nuova realtà?

All’interno di una realtà devastata dal virus informatico Xeron, Natsuko Kiguchi e Aya Kobayashi sono le giovani donne protagoniste di questo breve racconto. Le due, incrociatesi per caso (o dovremmo dire per destino?) sulle scale mobili, sembrano riconoscere nell’altra il rispettivo e mai dimenticato amore liceale. Ma la gioia e la dolcezza di un insperato ricongiungimento lasciano ben presto spazio a una rimpatriata di equivoci, rimpianti, frasi non dette e identità fumose, dove la possibilità (o forse l’illusione?) di una redenzione è confinata nella ambiguità di un irrisolvibile gioco di ruolo.

Un gioco all’interno del quale Natsuko e Aya assumono le sembianze di pupazzi nelle man di forze più grandi di loro: destino e fantasia. E se gli effetti del primo, arbitro invisibile dell’intera pellicola, si riflettono in maniera più che evidente nelle azioni, negli sguardi e nelle scelte dei personaggi, può risultare suggestivo ipotizzare che, con la seconda, Hamaguchi non volesse limitarsi a indicare il potere della capacità immaginifica della mente umana, ma piuttosto risalire alla etimologia greca del termine e al suo primario significato di “manifestazione”. Un tentativo dunque di porre l’accento sui numerosi fantasmi che, specialmente nel terzo episodio, galleggiano fra la trasparenza di memorie del passato e la concretezza fisica del tempo presente.

 

Domande, solo domande

Aya Kobayashi è davvero chi dice di essere? O è solo la versione impaurita e disillusa della Mika che Natsuko sta cercando? I sogni d’amore delle due donne hanno ancora la possibilità di realizzarsi? O sono destinati a infrangersi contro l’inesorabilità del rimorso? Interrogativi che il cineasta dissemina lungo il minutaggio del racconto; interrogativi che costituiscono l’impalcatura stessa di questa storia e che trovano sfogo nel simbolismo strutturale appositamente costruito da Hamaguchi. Da un lato le scale mobili, luogo d’incontro e di saluto, catturate nell’armonia regolare di un duplice movimento a scendere e salire e rese loop infinito, terra di mezzo tra dolore e accettazione, rassicurante prigione architettonica.

Dall’altro le vetrate della casa di Aya (o Mika?), gabbia trasparente di sentimenti mai esplicitati e soluzione vitrea tesa a investigare la tematica identitaria che fa da perno alla narrazione. Quasi a voler moltiplicare le forze in gioco e costringere i personaggi a osservare il proprio riflesso, trasformando quindi il corso degli eventi in un harrypotteriano “specchio delle emarb” in movimento. Un’occasione di osservare di sfuggita la felicità per poi smarrirsi nella sua contemplazione.

 

Tra avatar e false speranze

Che cos’è dunque Ancora una volta? È speranza o rassegnazione, o parte di entrambe? Una risposta certa probabilmente non esiste, perché quanto appare chiaro è che l’interesse di Hamaguchi risiede più nell’analisi di un quesito che nella effettiva eventualità di una sua risoluzione. Così come è piacevole perdersi nell’imprevedibilità delle scelte narrative del regista che, fin da principio, palesa i processi di de-identificazione tipici dell’attualità iper-connessa mascherandoli però dietro la fantasia di un mondo spogliato di web, social network e siti d’incontro. Non una pausa dalla frenesia contemporanea, non (almeno non del tutto) un tentativo di riscoprire la bellezza del fisico incontro, quanto piuttosto la constatazione che, al di là di internet, la volontà e soprattutto il coraggio di relazionarci con chi ci circonda sono le uniche armi in nostro possesso in grado di combattere contro un’esistenza votata al rimpianto.

Il risultato è una vera e propria pantomima, una recita costantemente in bilico tra verità e menzogna durante cui Natsuko e Aya vestono e svestono differenti costumi, divenendo gli avatar di loro stesse. Non v’è traccia dei corpi bluastri dei Na’vi di Pandora, né tantomeno degli ologrammi Spielbergiani alla Ready Player One; i travestimenti sono decisamente più “sottili” e, potremmo dire, pirandelliani: ciò che si è, ciò che si è creduti, ciò che si vorrebbe e che, forse, è troppo tardi per essere.

 

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