Sulla possibilità di immaginare un destino diverso

Non so se Kamala sia felice di questa situazione. A dire la verità non ha scelta, e ho l’impressione che faccia parte di quelle ragazze che preferiscono tenere i capelli lunghi e mostrare la loro identità, piuttosto che nascondersi e mentire. A me invece tutto questo non crea problemi, al contrario! Nel profondo del mio cuore so che sono un ragazzo e che mi aspetta un destino da uomo. Io non mento.

Divenuto bestseller da poco in Italia, il libro di Ukmina Manoori, intitolato Le bambine non esistono, parla di come l’autrice si sia dovuta abituare, nei primi suoi dieci anni di vita, a rivestire panni tradizionalmente considerati maschili all’interno della società afghana.

Il titolo del libro in inglese suona I‘m a Bacha Posh e richiama la condizione di tutte quelle bambine afghane che sono state cresciute dai loro genitori come dei bambini, al fine di scongiurare la vergogna di non aver avuto (o averne avuto solo uno) figli maschi: bacha posh.

Il libro non si ferma a essere la biografia dell’autrice, ma rappresenta più ampiamente anche e soprattutto il diritto che solo il genere maschile ha, nella tradizione afghana, di avere una voce. E Ukmina utilizza questa voce per informare circa “i muri di casa”, unico luogo in cui si svolge la vita delle donne.

La protagonista

La copertina del libro, edito in Italia da Libreria Pienogiorno da inizio gennaio 2022 (ma pubblicato per la prima volta in lingua inglese nel 2014), mostra il viso asciutto di una bambina dalla pelle olivastra. Leggermente nascosto da quel che potrebbe essere un burqa, sul viso si riesce ancora a intravedere uno sguardo attento e vigile, confermato dalle labbra serrate. Il colore che padroneggia l’immagine, facendone da sfondo, è il bianco, quasi a sottolineare la purezza del soggetto.

Non conosco la mia data di nascita. Da noi non si festeggiano i compleanni. Sulla mia carta d’identità c’è scritto che sono nata nel 1346, secondo il calendario solare iraniano che utilizziamo noi pashtun. È un’ipotesi, una data aleatoria, non ho nessun certificato di nascita, nessuna dichiarazione ufficiale che attesti la mia venuta al mondo. Quando ho dovuto richiedere un documento di identità, mia madre ha fatto due conti: devi essere nata intorno al 1346, mi ha detto. O al massimo un paio di anni prima o dopo. Era un giorno di primavera, di questo era sicura. Si ricordava soprattutto che, quando ero uscita dal suo ventre, lei e mio padre si erano chiesti se sarei sopravvissuta. Avevano già perso dieci figli

L’autobiografia si presenta come il racconto dell’infanzia di Ukmina e delle persone che con lei condividevano la medesima situazione. Un racconto steso anni dopo e integrato con la consapevolezza di uno sguardo adulto, che si è riuscito a confrontare con “un destino diverso.

La figura della madre

Suadiqua è il nome della madre della protagonista del libro. Questo nome in pashtu significa “una persona onesta”. La vita di tutte le madri e donne del Paese,

Una vita di sottomissione. Orfana, si era sposata a quindici anni. Nella nostra comunità, una donna senza padre e senza un fratello è una donna senza protezione: le serve un marito al più presto. Le avevano trovato mio padre, più grande di lei di quindici anni.

Con il marito, Suadiqua partorì dodici figli, di cui dieci morirono e due sopravvissero. L’autrice descrive la vita della madre come una costante perdita: perdita dei genitori, perdita dei figli “La sua vita si riduce alla perdita di chi le è più caro. Non parla molto delle sue sofferenze, il suo destino è subire, tacere. Ukmina afferma che la madre non è una figura che si lamenta o si autocommisera, e questa attitudine è evidente anche nelle parole che rivolge alla figlia: “Non guardare mai al passato, vai verso il futuro, cerca di avere una bella vita”. Forse è da qua che deriva la scelta dello sguardo in copertina.

La figura del padre

Tuo padre è crudele”, dichiara Sudiqua presa da uno dei suoi rari momenti di sconforto. Dalla descrizione dell’autrice, il padre appare come una figura autorevole, fiera e pragmatica: “Tu sarai un maschio, figlia mia. La decisione di sottoporre Ukmina alla condizione di bacha posh è dettata dall’aiuto necessitato dalla famiglia, un aiuto che solo un figlio maschio può offrire.

Serviva qualcuno che

andasse a fare la spesa, badasse agli animali, lavorasse la terra e facesse tutto quello che un uomo ha il dovere e il diritto di fare. Noi siamo musulmani e pashtun, ci sono delle regole: una donna non può comparire in pubblico da sola, il che limita considerevolmente l’ambito delle sue attività.

Da quel momento, dunque, sotto la volontà unicamente dei suoi genitori, Ukimna divenne Hukomkhan, “l’uomo che dà ordini”. Tutti, dalla famiglia al vicinato dovevano considerare la protagonista come un uomo: “Questo è mio figlio, non mia figlia”. Così diventai Hukomkhan.

Da Ukmina a Hukomkhan

Nella nostra provincia non c’è niente di strano nel dichiarare che una femmina è un maschio. Al villaggio siamo una quindicina, vestite come i nostri fratelli, in shalwar kameez blu, una tunica lunga con pantaloni. Ci sono Jania e Sakina, Matgullah, Geengatta, Sharkhamatha, Kamala, Mamura. Le famiglie senza figli e senza discendenza hanno il diritto di travestire una delle loro figlie per salvare l’onore. Si dice anche che questo possa allontanare la malasorte dai figli futuri. Malasorte che consiste nell’avere una femmina.

Malasorte o forse superstizione che nasconde una motivazione pragmatica alla base: far indossare abiti maschili a una femmina le permette infatti, come già accennato in precedenza, di aiutare la famiglia, poiché solo così può lavorare e portare a casa del denaro. L’autrice riferisce una situazione simile, quella di Kamala.

Kamala ha sei sorelle e nessun fratello. Kamala è una bacha posh: è lei che mantiene la famiglia lavorando in un chiosco.

Chi le sta intorno sa che è una femmina, ma i clienti la prendono per un maschio e non vedono nulla di male nel farsi servire le loro bevande preferite da quel bambino con i capelli nascosti sotto il berretto e che indossa abiti maschili. Se Kamala non fosse vestita così, il proprietario del chiosco non l’avrebbe mai assunta: le ragazze non lavorano, restano a casa.

Il bacha posh non dura per sempre. All’età di dieci anni, maschi e femmine non possono più “mischiarsi”. E il divieto non deriva solo dal padre e dal fratello, ma anche degli altri bambini con cui fino al giorno prima la bambina sottoposta la bacha posh giocava. Giocare ancora con loro significherebbe infatti disonorarli, tanto che arriverebbero a denunciarla.

La fine del bacha posh

A dieci anni, le ragazze iniziano a indossare il velo e rinunciano alla libertà. I prati e i giochi vengono abbandonati

per entrare in quella che, da quel momento, sarà per sempre la loro vita: i muri di casa. Imparano a cucire, si occupano dei più piccoli, aiutano la madre. Restano pochi mesi prima di abbracciare il loro destino di donne: a dodici anni indossano il burqa e non escono senza la presenza di un uomo.

Vedo crescere il divario tra le due condizioni: l’indipendenza e l’autonomia che accompagnano la condizione maschile, la reclusione e l’alieneazione che costituiscono l’esistenza femminile. Nella mia mente di bambina non vedo nulla di male nell’immaginare un destino diverso rispetto a quello casuale che la mia nascita mi ha dato

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