Ulisse, eroe protagonista dell’Odissea di Omero, è un personaggio mitico vivido nell’immaginario comune. Nell’opera omerica è un uomo caratterizzato dall’affetto e dalla nostalgia nei confronti della sua famiglia e della sua terra, Itaca. L’Odissea di Omero è dunque il poema del viaggio e del ritorno: a intrecciarsi sono la memoria e l’attesa di un eroe che lotta contro il tempo perduto, ma che ha sempre la rotta proiettata verso casa.
Un secondo filo rosso che scorre nell’Odissea è il carattere variegato che ha l’eroe; nell’incipit del poema è infatti definito polýtropos, ossia multiforme:
L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patí in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
(traduzione italiana di Rosa Calzecchi Onesti)
La sua astuzia e ricchezza di ingegno cristallizzano la gloria di Ulisse nel mito, e il viaggio di Nessuno verso casa, che è un eterno ritorno e un’eterna ricerca, è il viaggio che potenzialmente chiunque può fare nel rammentare con nostalgia il proprio passato e i propri ricordi felici.
La figura di Ulisse, proprio perché variegata, presenta uno spettro di luci e di ombre che hanno affascinato artisti e poeti nei secoli: in particolare, la sua astuzia è stata spesso interpretata in maniera negativa, tacciando l’eroe di tracotanza e noncuranza rispetto ai limiti imposti agli uomini mortali.
Dante e l’eroe del “folle volo”
Nella Commedia dantesca, il poeta fiorentino incontra Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno. L’eroe di Dante è profondamente diverso dall’eroe di Omero: se nell’Odissea Ulisse viaggia per tornare finalmente a casa, nell’Inferno è desideroso di lasciare la sua terra e di navigare per mare. A caratterizzarlo è una insaziabile sete di conoscenza, che lo esorta a spingersi oltre, a tentare nuove esperienze e a esplorare nuovi territori. Non esita a superare i limiti che nessun uomo aveva mai superato, e il suo ingegno è piegato a esortare i suoi marinai timorosi di seguirlo nell’impresa; così, da eroe astuto e ingegnoso diventa ingannatore e fraudolento, e il suo “folle volo” gli procura la giusta punizione: la morte. Tuttavia, Dante sottolinea il suo coraggio nel ricercare il sapere, e Ulisse è dunque il simbolo dell’amore e del valore della conoscenza, nonostante tutto.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
(Inferno XXVI, 112-126, a cura di Giorgio Petrocchi)
Tennyson, Ulysses
Il filo rosso della ricerca della conoscenza si snoda anche nella poesia Ulysses di Alfred Tennyson (1809 – 1892), scritta nel 1833. Come l’Ulisse dantesco, anche l’Ulisse di Tennyson è pronto ad affrontare la morte e l’ignoto pur di ottenere la conoscenza; il testo è inoltre percorso da una vena malinconica, perché Ulisse, ormai anziano, rievoca con nostalgia le sue avventure e non accetta di dover restare bloccato nella piccola Itaca. I suoi occhi non si accontentano del breve spazio che copre l’isola, vogliono solcare l’orizzonte, tuffarsi nel tramonto, oltrepassarlo e giungere a un nuovo mondo. Ulisse non si accontenta più di respirare, vuole vivere. Afferma di aver sempre vagato con cuore affamato, e non ritiene che la vita vada ammucchiata su se stessa, senza essere sfruttata fino all’ultimo respiro. Ulisse rivolge così un travolgente discorso ai suoi uomini, esortandoli a seguirlo in un’ultima, eroica impresa: li persuade a seguire nuovamente la conoscenza, come una stella cadente, perché, anche se ormai segnati dal tempo e lontani dallo splendore antico, prima che la morte li inghiotta definitivamente, c’è ancora molto che è degno di essere scoperto e assaporato.
[…] Venite: tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.
Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori
via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto
ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte.
Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse,
nostro destino è toccar quelle isole della Fortuna,
dove vedremo l’a noi già noto, magnanimo Achille.
Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.(traduzione di Giovanni Pascoli)
[…] Come, my friends,
‘T is not too late to seek a newer world.
Push off, and sitting well in order smite
The sounding furrows; for my purpose holds
To sail beyond the sunset, and the baths
Of all the western stars, until I die.
It may be that the gulfs will wash us down:
It may be we shall touch the Happy Isles,
And see the great Achilles, whom we knew.
Tho’ much is taken, much abides; and tho’
We are not now that strength which in old days
Moved earth and heaven, that which we are, we are;
One equal temper of heroic hearts,
Made weak by time and fate, but strong in will
To strive, to seek, to find, and not to yield.
(testo originale)