La nozione di autenticità è autentica o artificiale?

Essere se stessi”: quante volte abbiamo sentito o letto questa espressione, nelle sue varie declinazioni, spesso in quella ingiuntiva/esortativa “sii te stesso/a!”. Si tratta di un invito all’autenticità, ad assumere forme comportamentali, posture, modalità relazionali conformi alla propria inclinazione caratteriale e psicologica. La frequenza con cui questa formula viene ripetuta e rilanciata, la pluralità di contesti in cui viene utilizzata, consigliano di riflettere sulle sue implicazioni sociali e culturali.

Anzitutto, il concetto di autenticità può essere definito con le calzanti parole di Annamaria Testa, esperta di comunicazione, affidate alla rivista «Internazionale»:

Sembra che, per gli psicologi e per diversi filosofi del novecento, l’essere “autentici” abbia a che fare con il mantenere uno stretto contatto con i propri valori, con le proprie esperienze, con la propria storia personale, con i propri desideri. E nel comportarsi di conseguenza, a prescindere da quanto forte sia la pressione sociale a conformarsi. In sostanza, e per dirla in modo molto, molto sbrigativo, tra autentico e inautentico correrebbe lo stesso discrimine che c’è tra profondo e superficiale, tra interiore ed esteriore, originale/creativo e artefatto/stereotipato. E tra sincero e insincero.

 

La proposta di Kernis e Goldman

Testa cita anche un approfondito lavoro, la cui dominante è di specie speculativa, filosofica, che attraversa la storia del pensiero occidentale per estrarne un’immagine complessiva del concetto di “essere se stessi”: si tratta di A multicomponent conceptualization of authenticity: theory and research, di Michael H. Kernis e Brian M. Goldman. Al suo interno, i due studiosi dell’Università della Georgia individuano alcuni nuclei fondanti dell’idea “istituzionale”, intersoggettiva di “autenticità”, configurando una sorta di “scala”, di percorso ascendente verso un’ideale epitome:

  1. Il conoscere sé stessi, requisito socratico fondamentale per essere sé stessi;
  2. L’unbiased processing, cioè l’elaborazione di un’immagine mentale e psicologica il più possibile aderente al risultato del primo punto: essenzialmente, si tratta di non mentire a sé stessi, di sviluppare un’onesta consapevolezza;
  3. Un comportamento e un modo di intrattenere relazioni sociali coerente con tale immagine.

Le relazioni sociali

È davvero possibile che questi tre passaggi si concretizzino con successo, l’uno dopo l’altro? Cominciamo con l’affrontare le obiezioni circa la effettiva possibilità di realizzare il terzo passaggio, quello relativo alle relazioni interpersonali. Luigi Pirandello, massimo esponente del modernismo letterario italiano, elaborò fra i primi l’idea dell’impossibilità, per l’uomo, di lasciar liberamente fluire la vita nei meandri della società contemporanea, prescindendo dalle maschere, vale a dire dalla cristallizzazione di questo flusso in forme fisse e provvisorie, e per ciò inautentiche.

L’unica soluzione plausibile per evitare la follia, per chi percepisca la vuota convenzionalità delle proprie prassi sociali, sembra essere un paradossale abbandono alla natura, una rinuncia alla socialità. L’eredità pirandelliana è raccolta in Italia, nel secondo Novecento, da una molteplicità di autori: si potrebbe citare Gianni Celati, che in Scomparsa d’un uomo lodevole rappresenta l’anonimo protagonista, un “tipo”, un everyman degli anni Ottanta, come attore di un “insondabile copione” che lui stesso ignora, una “controfigura dell’esistenza“. Oppure, riferendosi alla poesia, a Giovanni Giudici, che nella sua Vita in versi mette in discussione la possibilità che l’io conservi un residuo nucleo di autenticità, un “vero volto” al di sotto delle apparenze, delle manifestazioni epifenomeniche dell’io.

L’unbiased processing

È chiaro tuttavia come le obiezioni rispetto alla possibilità di conservare intatto il “sé” in relazione agli altri siano quelle più facili e “comode”. Apparentemente, il secondo dei tre passaggi, la capacità dell’io di forgiarsi un’immagine coerente e onesta di se stesso non potrebbe essere messa in questione. Ogni disassamento tra “vero sé” e immagine che l’io si “autofabbrica” sembrerebbe, sulle prime, un indizio della disonestà intellettuale, di una volontà più o meno “fraudolenta” di uscire migliori di quello che siamo da questo “esame di coscienza”. Ma siamo sicuri che sia sempre così? Testa ci avverte di una serie di elementi ostativi che discendono da alcune abitudini tipiche dello stile di vita contemporaneo:

Viviamo per la maggior parte del tempo in ambienti artificiali. Frequentiamo mondi virtuali. Ci sforziamo di corrispondere a una quantità di attese riguardanti la forma fisica, il successo e il gradimento sociale. Proviamo ad accordarci a una mole ugualmente grande di strampalati imperativi, espliciti o impliciti – da “dimostra meno anni di quelli che hai” a “guadagnati più like su Facebook”.

Possiamo pensare quindi che la proliferazione di filtri, mediazioni crei un gioco di specchi in cui l’io non è più in grado di immortalare se stesso, di riconoscersi, di capire quale delle innumerevoli rifrazioni della propria identità coincida con quella vera, con l’autentico sé. Ogni giorno creiamo e facciamo agire al posto nostro decine di “Avatar”. Viene alla mente, in proposito, il classico meme che mette a confronto le impressioni di sé che si tende ad affidare ai diversi social network. Ma se vogliamo mostrarci diversi a seconda che si pubblichi un contenuto su Instagram, Facebook o LinkedIn, come possiamo pensare di individuare un nucleo identitario univoco stabile e valido anche per altri ambiti della nostra esistenza?

Conoscere sé stessi

Almeno il primo passaggio del processo scalare di Kernis e Goldman la possibilità di attingere a un sé, di evocare animisticamente e visualizzare epifanicamente il concetto di identità dovrebbe risultare pacifica. Ma improvvisamente ci assale un dubbio atroce: esiste un’identità? Esiste un valore assoluto a cui ricondurre le estroflessioni della personalità e dell’agire di ognuno di noi? Esiste davvero un nucleo autentico, inscalfibile, inalienabile, fatto di valori etici e inclinazioni psicologiche, associabile a ognuno di noi? La concezione di un io “a rete”, o di un “sé-rete”, come lo chiama Kathleen Wallace, mette in discussione anche questo assunto basilare. Secondo Wallace,

Dapprima può sembrare strano pensarsi come un processo. Si potrebbe credere che un processo non sia che una serie di eventi, mentre il sé è qualcosa di più sostanziale. Una persona potrebbe pensarsi come entità distinta dalle sue relazioni, ritenere che il cambiamento sia qualcosa che succede a un nucleo immutabile che la definisce […]

Invece, “l’idea che il sé sia una rete e un processo è più plausibile di quanto sembri”. E di conseguenza, “il sé è visto come una rete cumulativa dall’integralità mutevole”. Insomma, l’io, l’identità, non sarebbe un piano di realtà, bensì la convergenza di una serie di piani disassati, sghembi, spesso latori di incoerenze.

Date queste premesse, il concetto di autenticità risulta (irrimediabilmente?) compromesso, disperso in un labirinto senza uscita. Sembra ridursi ad artificiosa costruzione sociale, a costrutto culturale frutto di infinite e problematiche mediazioni: paradossalmente, la più inautentica.

 

FONTI

Internazionale

G. Giudici, La vita in versi, Scalpendi, 2021

G. Celati, Quattro novelle sulle apparenze, Quodlibet Compagnia Extra, 2016

B. M. Goldman, M. H. Kernis, A multicomponent conceptualization of authenticity: theory and research, Georgia University, 2006

K. Wallace, The network self: Relation, Process and Personal Identity, Routledge, 2019

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