Le quattro stagioni di Kim Ki-duk

Un portone di legno intagliato con figure mitologiche orientali si apre lentamente lasciando intravedere cosa si cela al di là. Come un sipario teatrale svela il luogo in cui si svolgerà la vicenda narrata in Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, il capolavoro del regista sudcoreano Kim Ki-duk.

Già noto per Coccodrillo (1996) – nonchè il suo film di debutto – e il successivo L’isola (2000) Kim Ki-duk è stato uno dei registi più affascinanti e complessi del cinema orientale contemporaneo. Al Festival di Locarno del 2003 ricevette numerosi apprezzamenti per la sua pellicola più intimista e delicata, che si differenzia dalle altre caratterizzate da contenuti crudi e visivamente difficili da apprezzare dal pubblico più sensibile.

Le tematiche

Il film, suddiviso in 5 capitoli che corrispondono alle cinque stagioni del titolo, ha come tema principale il rapporto tra uomo e natura. In un tempio galleggiante su un lago a sua volta circondato dalle montagne vive un monaco buddhista con il suo allievo, insieme aspirano a vivere una vita caratterizzata da saggezza e purezza. I due che inizialmente appaiono in grande equilibrio verranno messi alla prova da alcune circostanze che ne intralceranno il cammino spirituale.

Kim Ki-duk racconta un viaggio, il compimento di un percorso che sottolinea la ciclicità dell’esistenza umana. Le quattro stagioni infatti sono da intendere come metafora della vita dell’uomo, dato che la pellicola mostra un arco temporale di circa 50 anni in soli 103 minuti. Ogni capitolo riguarda un periodo della vita del protagonista, il giovane monaco, alle prese con le avversità ma desideroso di trovare la pace interiore.

L’importanza dell’ambiente

Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera è un film che mette in evidenza lo stile registico di Kim Ki-duk. Non solo regista, è stato anche un famoso montatore e fotografo: queste ulteriori conoscenze risaltano in tutte le sue pellicole, in particolare questa, in cui ad emergere è la ricerca della perfezione nella composizione di ogni inquadratura.

Già dalla prima scena è evidente l’importanza che assume l’ambiente per il regista sudcoreano. In questa valle sperduta nel nulla la natura incontaminata sovrasta l’uomo fino quasi ad annullarlo. Il tempio, unica traccia della sua presenza, risulta impercettibile rispetto a ciò che lo circonda rimanendo imperturbabile nonostante il trascorrere del tempo.

Kim Ki-duk rivela tramite dei campi lunghi il paesaggio circostante e i suoi cambiamenti in corrispondenza con le quattro stagioni. La primissima inquadratura mostra l’apertura di questa porta che si scoprirà avere un valore simbolico. Tuttavia questo passaggio risulta essere fittizio, poiché la struttura non ha punti di appoggio: il riferimento brechtiano ad una scenografia scarna aumenta lo stupore dello spettatore che si trova davanti all’interruzione dell’illusione cinematografica e pone più attenzione ai significati semantici che assumono tutti gli elementi in scena.

Come nei dipinti romantici l’ambiente circostante attraverso i suoni ma soprattutto i silenzi, diventa portatore di significato in quanto il tempio e la sua valle sono metafora di un’esistenza pura e incontaminata dalle barbarie del mondo reale. Questo ambiente è infatti dominato dagli elementi primari quali l’acqua, il ghiaccio, la terra e il fuoco.

I mondi fluttuanti

Il riferimento a L’isola nuda di Kaneto Shindō è indubbio: questo film del 1960 ha come protagonista una famiglia che vive su un’isola deserta e che passa le sue intere giornate ad occuparsene. La ripetitività dei gesti, i silenzi, le attese e ancora una volta la ciclicità che caratterizza le loro giornate, sono dei riferimenti da non sottovalutare. La colonna sonora che accompagna le loro azioni scandisce i loro movimenti ed enfatizza le loro emozioni come nel cinema muto.

Anche in questo film come per Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera la natura diventa l’unica fonte di vita insieme ad un elemento onnipresente: l’acqua. In entrambi i mondi fluttuanti (ukiyo-e in giapponese) che tratteggiano i due registi l’acqua è fondamentale per vivere. Nel film di Kim Ki-duk il monaco e il suo maestro sono costretti infatti a utilizzare una barca per raggiungere la terraferma e quindi la civiltà.

Primavera, estate

La prima parte del film racconta l’infanzia del protagonista. Il bambino è ancora in quella fase denominata seconda infanzia che va dai due ai sei anni. Questo periodo è caratterizzato dalla maturazione del pensiero simbolico e dall’esplorazione del mondo.

Durante la primavera della sua esistenza si assiste alla crescita morale del novizio il quale viene messo alla prova dal suo maestro attraverso degli insegnamenti che hanno come fine ultimo il raggiungimento della purezza. La crudeltà congenita dell’essere umano si manifesta fin dalla tenera età. Solo la fermezza e la bontà del monaco riuscirà a placare questo istinto animale attraverso l’utilizzo della pena del contrappasso per analogia – con evidenti rimandi alla cristianità – a seguito delle torture inferte ad animali come il pesce, il rospo e il serpente (che nel buddhismo sono rispettivamente simboli di liberazione, ricchezza ed energia vitale).

L’estate corrisponde al fiorire del protagonista: il sole con la sua luce abbagliante fa scaturire gli istinti sessuali tipici dell’età adolescenziale che prenderanno poi il sopravvento. Il giovane monaco viene per la prima volta a contatto con la donna, una figura che può essere interpretata come la personificazione del peccato.

Da quel momento il ragazzo non sarà più lo stesso. Avviene un passaggio sia fisico che simbolico verso l’età adulta e di conseguenza verso la perdizione. Per “uscire” da questo mondo puro il protagonista attraversa la porta di legno che apre ogni sequenza del film. La vita mondana di cui parlerà il maestro corrisponde metaforicamente a un mondo corrotto dove imperano vizi e tentazioni.

Autunno, inverno

Verso metà della pellicola si assiste alle fasi più oscure della vita del protagonista, quelle dal punto di vista atmosferico più fredde e buie. Durante l’autunno l’uomo ha circa trent’anni e, scappato ormai da tempo dal suo maestro, ritorna a seguito di un avvenimento che lo segnerà per tutta la vita. Mosso dalla gelosia ha compiuto un atto imperdonabile nei confronti della moglie. L’unico mio peccato è stato quello di amare una donna rivela al suo vecchio maestro, ma quest’ultimo sa ancora una volta come ripulire l’animo del suo discepolo. Attraverso una sequenza dalla potente carica drammaturgica si assiste al tentativo di redenzione da parte del protagonista.

Tramite una meravigliosa scelta registica il Sutra del cuore della perfezione della saggezza (Prajñāpāramitā Sūtra) – i cui ideogrammi vengono intagliati sul pavimento del tempio e poi colorati – diventa processo di catarsi di un animo corrotto. Una volta compiuto il sacrificio l’uomo può scontare la sua pena lontano dal luogo che fino a quel momento aveva cercato di proteggerlo.

Durante l’inverno si assiste alla chiusura del ciclo e quindi alla morte. Un trapasso (non solo simbolico) che questa volta vede come protagonista il vecchio maestro ormai giunto al termine della sua esistenza. L’ideogramma sul pezzo di carta che il monaco appoggia sul volto prima di morire indica la porta chiusa e quindi la chiusura della vita. In una sequenza visivamente memorabile l’anziano si congeda da quel luogo ma soprattutto dal suo discepolo, cosciente di aver portato a termine il suo compito. 

L’inverno si conclude con il ritorno del giovane monaco che da tempo ha raggiunto la maturità. Il ritorno al tempio simboleggia il ritorno alla purezza, scontata la sua pena il monaco è pronto a ricominciare una vita fatta di dedizione e saggezza. Il ciclo è quindi compiuto, il nuovo maestro si prepara così ad accogliere il suo prossimo discepolo.

Una donna col volto coperto da un velo porterà infatti un neonato in dono al tempio: il maestro si prepara così a crescerlo come aveva fatto anni prima il suo predecessore. Ma un fatale e improvviso incidente della donna farà compiere al monaco un ultimo atto di purificazione.

…e ancora primavera

La primavera comporta l’inizio di un nuovo ciclo e quindi di una nuova vita. A cavallo tra le due stagioni si assiste alla completa catarsi e purificazione del protagonista. Interpretato dallo stesso Kim Ki-duk l’uomo compie un ultimo sacrificio in una sequenza completamente improvvisata dal regista. Con un chiaro rimando alla simbologia cristiana il nuovo maestro, portando un fardello sulla schiena come se fosse una croce, raggiunge il punto più alto delle montagne attraverso una simbolica scalata verso la luce.

Un montaggio alternato ci mostra gli animali precedentemente torturati da lui bambino compiere anche loro l’ultima fatica, rivelando la chiusura del cerchio e quindi la ricostituzione dell’equilibrio iniziale.

In questa lunga sequenza finale la distinzione tra monaco, attore e regista scompare totalmente: le tre figure coincidono e per questo il finale del film viene spesso considerato come il momento più autobiografico della carriera del regista. La primavera porta così all’apertura verso un nuovo percorso in cui uomo e natura sono ancora il centro nevralgico.

Non era prevista nello copione originale. Durante l’ora di pranzo dissi allo staff che sarei andato a scalare la montagna di 1000 metri. Nessuno mi credette ma lo feci… Portai la pietra (una macina) mentre il mio staff portò la cinepresa. La temperatura era sotto lo zero.

Dal momento i cui il regista compie l’atto di scalare la montagna (il monte Chaungwang) cessa di essere il monaco protagonista tornando ad essere sé stesso: un uomo che riflette sulla propria vita.

 

FONTI

Kim Ki-duk, Renzi Vittorio, Dino Audino Editore, Roma, 2005

Three Questions about Spring, Summer, Fall, Winter… and Spring and Kim Ki-duk’s
Film, Yi, Tong-jin, Cine 21, 2003

it.wikipedia.org

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