“Don’t Look Up”: la graffiante ironia di Adam McKay

Non può essere vero…è reale?

L’interrogativo affidato alla voce di Leonardo di Caprio si erge a manifesto programmatico di Don’t Look Up, ultima opera di Adam McKay rilasciata nelle sale lo scorso 8 dicembre e pronta ad approdare in streaming alla vigilia di Natale. Un interrogativo di duplice natura intra ed extradiegetica che la pellicola, di produzione Netflix, sembra rilanciare allo spettatore per sfidarlo ad osservare il mondo che lo circonda. E a domandarsi che cosa, nell’epoca virtuale dei social media, delle stories Instagram e del dominio dell’apparenza possa ancora definirsi autentico.

Conto alla rovescia

Leo di Caprio e Jennifer Lawrence sono il dottore in astronomia Randall Mindy e la dottoranda, sua allieva, Kate Dibiaski. È proprio quest’ultima, nel corso di alcune osservazioni, a scoprire l’esistenza di una cometa non meglio identificata. Le misurazioni da lei svolte, confermate dal professor Mindy, rivelano però una tragica scoperta: il meteorite è in rotta di collisione con il pianeta Terra e, in caso di impatto, causerebbe la sicura estinzione dell’intero genere umano. I due studiosi, presi dal panico, ottengono l’aiuto del dottor Teddy Oglethorpe e si rivolgono prima alla Casa Bianca e poi al programma televisivo The Daily Rip, ma nessuno, né la presidente Janie Orlean (Meryl Streep) né i conduttori Jack Bremmer (Tyler Perry) e Brie Evantee (Cate Blanchett), sembra volerli prendere sul serio.

Il tempo stringe e l’inesorabile conto alla rovescia ha avuto inizio.

Don’t Look Up è l’ennesima personificazione filmica del suo regista, parco giochi grottesco della sua poetica e indiscutibile summa del suo percorso autoriale. Sintesi efficace della comicità assurda e della critica ai canali di informazione della duologia di Anchorman, della satira socio-culturale di commedie demenziali (ma solo in superficie) come I poliziotti di riserva, della graffiante ironia politica pregnante La grande scommessa e Vice. Elementi di evidente riconoscibilità, confluiti in un orgasmo infografico di amare risate e in una fotografia tristemente quasi rassegnata dell’apocalisse che ogni giorno si consuma davanti ai nostri occhi.

Adam McKay legge e ritrae il nostro mondo come solo pochi riescono a fare e la distruttiva cometa Dibiaski funge dunque da naturale pretesto per dipingere una contemporaneità sconcertante, sommersa da mala politica, dati, gossip e ridicolaggini web. Un desolante panorama a cui il regista assesta un colpo dopo l’altro, attraverso una gestione intelligente del materiale narrativo e a una efficace messa in ridicolo dei meccanismi che governano la società.

Senza futuro

Sulla scia degli spietati attacchi all’amministrazione Bush-Cheney, Adam McKay rivolge una attenzione particolare ai risvolti politici della questione, servendosi della talentuosa coppia Meryl Streep-Jonah Hill per scimmiottare la frustrante incompetenza dell’ormai ex presidenza Trump e, più in generale, per evidenziare il funzionamento marcio e deteriorato che buona parte degli statisti mondiali fanno del proprio ufficio.

Corruzione, interesse personale, campagna elettorale; ingredienti fin troppo attuali di una ricetta di sicura devastazione che il regista non teme di raccontare in tutta la sua imbarazzante desertificazione valoriale.

Un male intestino che investe a macchia d’olio informazione, scienza, spettacolo. La rivoluzione giornalistica di Ron Burgundy (“Io non so perché dovremmo dire al pubblico quello che deve sentire. Perché non possiamo dirgli ciò che vuole sentire?”) si concretizza così in un desiderio di sfiancante leggerezza e divertimento, recalcitrante all’accettazione di una verità che non sia infiocchettata fino alla storpiatura. Il progresso tecnologico, qui incarnato dallo slogan dell’azienda Bash “La vita senza lo stress di vivere” e mosso esclusivamente da propositi di arricchimento e auto masturbazione intellettuale, diviene pericolosa e pericolante parodia di se stesso. E il mondo dei social, del cinema e della musica si traveste da naturale sbocco per tale deriva di superficialità collettiva, affinché meme, post, note musicali e grande schermo possano colorare con luci psichedeliche l’oscuro baratro senza futuro in cui ci stiamo immergendo.

Alchimia e “tuttoisti”

Giunto ormai alla sua ottava pellicola da regista, Adam McKay, nelle vesti di un anziano John Hammond, ha deciso anche questa volta di non badare a spese. Il ritmo cadenzato del montaggio di Hank Corwin trova, infatti, risposta nelle magnetiche interpretazioni della solita squadra di super divi composta dal cineasta. Da Di Caprio alla Lawrence, da Meryl Streep a Jonah Hill, passando per Chalamet, Cate Blanchett, Mark Rylance e Ariana Grande. Un olimpo di star che il regista, ormai abituato a siffatte cornucopie di talento, riesce a gestire con la solita tranquillità, riuscendo a fornire una caratterizzazione adeguata al ruolo di ciascun personaggio.

Abilità attoriale e magnetismo fungono allora come catalizzatori di un’opera come sempre ricca e coinvolgente, in grado di ordinare la voluta confusione data dall’ammassarsi di negazionisti, complottisti, sopraguardisti, anestesisti e chi più ne ha più ne metta. Un’opera che si fa foriera di un punto di vista autoriale chiaro e ben definito. Un punto di vista sferzante che sembra voler tentare di scalfire un sonno cerebrale che, oggi più che mai, rischia di assumere connotazioni di goyana memoria.

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