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Bitcoin e ambiente: il re delle criptovalute consuma troppa energia

Esiste una religione a cui tutti prima o poi si convertono. È un credo multiforme, che assume varie costituzioni a seconda del Paese in cui viene praticato e che si rivolge a un dio dai nomi differenti, ma che in fondo è fatto della stessa sostanza dovunque. Il dio denaro gode della completa devozione dei suoi adepti, da sempre e in ogni angolo della terra, trasformando i suoi più affettuosi credenti in ciò che loro desiderano. “Io sono brutto, ma mi posso comprare la più bella delle donne” scriveva Karl Marx nei suoi Manoscritti economico filosofici del ’44, esprimendo così l’infinito potere che la ricchezza esercita sulla società, oggi come ieri.

Una nuova frontiera: le criptovalute

Fino a qualche decennio fa il dio denaro era forse l’unica divinità ad avere un corpo solido di cui disporre, da toccare, da scambiare, da tenere dentro uno scrigno sacro detto portafogli. Da qualche anno a questa parte esiste però un nuovo volto che il dio multiforme può assumere, un volto più volatile e fluido. Si tratta dell’innovativa frontiera delle criptovalute, che hanno portato una sferzata di novità all’ormai trito mondo dei pagamenti non fisici tramite le carte di credito. Ma cosa sono le criptovalute? Sebbene in un futuro forse non troppo lontano le criptomonete potrebbero essere una forma di pagamento utilizzata in tutto il mondo, il concetto non è sempre stato illustrato con incontrovertibile chiarezza, alimentando il mito di un oggetto misterioso, astruso dalla nostra quotidianità, il cui senso profondo è accessibile solo a esperti economisti.

BitcoinIn realtà la definizione di criptovaluta non pare presentare particolari difficoltà. Così si legge nell’edizione online del dizionario Treccani: “Strumento digitale impiegato per effettuare acquisti e vendite attraverso la crittografia, al fine di rendere sicure le transazioni, verificarle e controllare la creazione di nuova valuta; denaro, moneta virtuale”.

Molto sinteticamente dunque una criptovaluta è una moneta non fisica. Detto così il rivoluzionario concetto di criptomoneta non pare poi così rivoluzionario, non da quando tutti noi abbiamo in quel nostro scrigno sacro una o più carte di credito che ci permettono di pagare quasi ovunque senza toccare fisicamente il denaro. Ma la criptovaluta possiede altre caratteristiche fondamentali che la rendono davvero differente da qualsiasi altro metodo di pagamento sperimentato fino ad ora: non si appoggia né alle banche né agli Stati e garantisce l’anonimato dei suoi utenti.

Come funzionano le criptovalute

Un articolo del «New York Times» ricorda i bei vecchi tempi quando per eseguire un pagamento bisognava passare inevitabilmente, se non altro per ritirare i contanti, attraverso il sistema bancario. Con le criptovalute tutto questo non è più un passaggio necessario.

Un’esaustiva spiegazione di cosa sia una criptovaluta e di come questa funzioni è stata fornita qui. Per gli intenti di questo articolo sarà sufficiente un rapido sguardo al funzionamento delle criptomonete, in particolare del re indiscusso di questo nuovo mercato emergente: il Bitcoin.

Quando un utente A vuole trasferire una certa somma di Bitcoin a un utente B la transizione è inserita all’interno di un registro pubblico chiamato blockchain. Nel momento in cui una transizione entra in questa “catena di blocchi” si trova in uno stato d’attesa e necessita che qualche utente della rete la convalidi attraverso una serie di complessi calcoli algoritmici

Il processo di mining

Per validare una transizione è necessario che questa venga riconosciuta come corretta dalla maggioranza della rete. Questo processo avviene attraverso una serie di complicati controlli della blockchain, alla fine dei quali – se tutto va bene – la transazione di Bitcoin viene portata a termine. Ma per eseguire tali controlli bisogna disporre di un’ingente possibilità di calcolo, ossia grossi computer che eseguano le dovute verifiche, nonché di un’enorme mole di energia per mantenerli in funzione. Gli utenti della rete che mettono a disposizione del network la loro potenza di calcolo sono chiamati miners. Ogni volta che un miner convalida una serie di transizioni – detta “blocco”, da cui deriva il nome blockchain – il sistema lo ricompensa con dei nuovi Bitcoin, creati ex novo. Miners

Questo metodo di generazione di nuove valute, che non necessita di appoggiarsi al sistema bancario o al tesoro nazionale, è detto appunto mining. Quando qualcuno completa l’attività di mining o riceve un pagamento, i nuovi Bitcoin vengono aggiunti al suo portafogli digitale. Questo è  identificato da un “address” pubblico, simile a un IBAN, che non permette di risalire all’identità del suo possessore. Con tale escamotage il mercato dei Bitcoin garantisce l’anonimato dei suoi fruitori.

Le ricadute ambientali

Perché la rete dei Bitcoin funzioni dunque sono necessari computer che convalidino le transizioni. E questi computer, inevitabilmente, consumano energia. Il «New York Times» denuncia come nel corso dell’ultimo decennio il valore dell’energia impiegata per convalidare i pagamenti sia aumentata a dismisura. Nel 2009 minare i Bitcoin era un’attività che poteva richiedere al massimo qualche secondo con l’impiego di un qualsiasi computer.

Oggi lo stesso processo occuperebbe un comune computer per il tempo esagerato di nove anni, con conseguente smisurato consumo di energia. Questo si spiega tenendo presente che tanti più utenti partecipano al mining, tanto più difficile diventa controllare i blocchi di transizioni e tanti più computer serviranno dunque per partecipare alla remunerativa attività di convalida.

Calcoli matematiciNel 2009, alla nascita del mercato dei Bitcoin, il premio per la validazione di un blocco di transizione corrispondeva a 50 criptomonete. Ora non è più così: il sistema prevede il dimezzarsi della ricompensa ogni 210.000 blocchi convalidati. Arriverà un momento dunque in cui non sarà più possibile coniare nuovi Bitcoin. Queste criptovalute non sono sono infatti una miniera di arricchimento infinita. 21 milioni è il numero massimo di monete digitali coniabili e, man mano che ci si avvicina a questo numero, diventa sempre più complesso minare nuovi Bitcoin da inserire nel network. Rendendo più difficili i processi di convalida e dimezzando le ricompense per i miners, il sistema cerca di rallentare il raggiungimento dei fatidici 21 milioni di Bitcoin immessi nella rete. 

Il consumo dei Bitcoin

Al giorno d’oggi per creare e usare Bitcoin si utilizza annualmente il fabbisogno energetico dell’Argentina. Uno studio pubblicato dall’università di Cambridge riporta come l’attività di mining arrivi a consumare circa 230 therawattora, ossia lo 0,5% del consumo energetico mondiale. Stime più ottimistiche attestano il dispendio d’energia dovuto alle criptovalute attorno ai 91 therawattora. Si tratta ovviamente di un ottimismo relativo, dal momento che anche in questo secondo caso l’attività di mining arriverebbe a consumare l’ammontare d’energia dell’intera Finlandia.

A questo si aggiunga che i grossi computer impiegati nei processi di mining devono essere spesso sostituiti con apparecchi più potenti, in modo da non essere battuti sul tempo da altri utenti mentre si cerca di convalidare una transazione. Il mercato che si è generato intorno agli strumenti utili a minare criptovalute sembra dunque avere tutte le carte in regola per trasformarsi in una fucina di rifiuti high-tech difficili da smaltire.

La possibile svolta green del mining

Ovviamente tanto l’energia quanto gli strumenti per la convalida dei Bitcoin hanno un costo, un costo parecchio lontano dalle facoltà economiche di molti privati. Questo ha costretto il mercato del mining a polarizzarsi in poche, ricchissime società che detengono gran parte del potere minerario del network dei Bitcoin. Al momento esistono 7 gruppi a cui fa capo circa l’80% dell’attività di mining, per lo più stanziati in Cina e negli USA.

In realtà l’alto costo che le società di mining sono costrette a pagare per potersi aggiudicare il quantitativo di energia richiesto dalla loro attività potrebbe spingere questi gruppi a rivolgersi a soluzioni eco-sostenibili. I fautori del Bitcoin predicano addirittura una possibile accelerata nella scelta dell’energia pulita proprio grazie ai bisogni del settore delle criptovalute. GreenInfatti la produzione di energia rinnovabile è meno onerosa rispetto a quella del carbone fossile. Per questo motivo molte società di mining hanno preferito stanziarsi in Paesi come la Cina, che grazie alle sue molte centrali idroelettriche assicura energia a basso costo.

Peccato che negli ultimi anni Pechino abbia introdotto politiche che svantaggiano il mercato delle criptovalute in favore della moneta tradizionale, spingendo molte delle società minerarie di Bitcoin ad emigrare nel vicino Kazakhstan. Qui l’energia, che costa appena 3 centesimi al chilowattora, proviene soprattutto dal carbone e da impianti a gas.

Il consumo d’energia dell’industria delle criptovalute, con buona pace dei più affezionati glorificatori del Bitcoin, rimane innegabilmente alto. Senza dubbio le possibiltà per un’evoluzione green dell’attività di mining sono ancora aperte, ma al giorno d’oggi è complesso prevedere gli sviluppi di questo nuovo mercato e le reazioni dei singoli Paesi alle sue evoluzioni. Per il momento resta l’evidenza di un’innovazione rivoluzionaria in molte sue parti, ma che sembra costare davvero troppo al nostro Pianeta.

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