Fabrizio De André e il bambino del fiume Sand Creek

Il Massacro di Chivington

“Fiume Sand Creek” è una delle canzoni più famose di De André e racconta di un massacro di Nativi Americani. In questi giorni, nel 1864, un colonnello americano, un “figlio di un temporale”, macchiò di nero una pagina del libro della storia degli Stati Uniti d’America. Questo evento prende il nome di Battaglia del fiume Sand Creek, o Massacro di Chivington.

Nella notte che separava il 29 novembre dal 30, un gruppo di neo-americani, guidati dal colonnello John Chivington, attuò un massacro di Indiani d’America sulle sponde del fiume Sand Creek (attualmente Big Sandy Creek). Ad essere attaccati furono seicento Nativi Americani appartenenti alle tribù dei Cheyenne e Arapaho; ad attaccare, settecento soldati disordinati e ubriachi.

Nell’ottica di De André

Fabrizio De André decide di mettere in musica questo avvenimento, simbolo di un periodo colmo di massacri simili a discapito degli autoctoni. 

Il cantautore genovese decide di presentare la storia dal punto di vista più innocente possibile: quello di un bambino. Grazie a questa particolarità riesce a trasmettere tutte le emozioni contrastati di cui questo evento è  carico, pur senza mai entrare troppo nello specifico del funereo spettacolo messo in scena dai settecento attaccanti.

L’inizio della canzone

La canzone si apre con 55 secondi di musica che raccontano da soli già tutta la storia: inizialmente è tranquilla e rilassata, come lo è la notte per gli Indiani d’America. Gli Stati Uniti infatti, in ragione di un accordo, avevano tranquillizzato i Nativi sul fatto che essi non sarebbero stati una minaccia per loro. La musica  viene spezzata da grida e spari. Il ritmo rallenta e diventa più cupo fino a quando, di colpo, cambia e arrivano le prime parole della canzone. 

Il brano inizia con l’epilogo dell’accaduto: “Si son presi il nostro cuore, sotto una coperta scura”. 

Il narratore dopodiché comincia a raccontare la faccenda, spiegando che loro non avrebbero potuto immaginare tutto ciò: “Sotto una luna morta piccola, dormivamo senza paura”.

Nonostante il racconto sia appena cominciato, la narrazione temporale dei fatti si ferma, proprio per dare l’idea di una tragedia che sembra essere finita da poco. L’autore, dunque, non segue un ordine cronologico preciso. Sembra  che colui che racconta voglia trattare subito del colpevole: un generale di vent’anni rappresentato in modo epico (“figlio d’un temporale”) a capo dei nuovi colonizzatori guidati unicamente dal denaro (“C’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek”).

Adesso comincia ad essere chiaro che forse chi parla non è un adulto, ma un bambino che si sveglia a causa di alcuni spari nel pieno della notte e non capisce che cosa stia succedendo. Questo si rispecchia proprio nel racconto non lineare. Infatti in pochi versi si tratta prima l’epilogo del massacro, poi la loro condizione tranquilla e non preparata a difendersi, e infine nomina il colpevole che viene descritto come un generale di venti anni, nonostante il colonnello Chivington ne avesse quaranta. Tutte queste caratteristiche fanno pensare ad un narratore-bambino non lucido, che sta raccontando affannosamente in disordine.

Il climax dell’evento

La seconda strofa si apre rimarcando il fatto che nessuno si aspettava un assalto, e precisa che gli uomini adulti guerrieri non si trovavano all’accampamento ma erano a caccia: “i nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte”.

Colui che sta cantando gli eventi è sveglio e spiega ciò che può percepire. Parla di una musica che sente sempre più vicina, probabilmente i cavalli che avanzano. Racconta che ha provato per tre volte a strizzare gli occhi, ad uscire da quell’incubo e a tornare a dormire, ma non ci riesce. A questo punto si avvicina al nonno chiedendogli se sta sognando o se è desto. Quest’ultimo non può che assumere il comportamento più umano possibile, e fa ciò che ogni nonno avrebbe fatto: tranquillizza il nipote rassicurandolo che sì, si tratta di un sogno. 

Ora è certo che a parlare è un fanciullo, un fanciullo dannatamente accecato dalla paura, che non distingue più neanche cosa sia reale e cosa invece no. Un bambino che vuole credere a tutti i costi che tutto ciò sia un sogno, un sogno talmente forte da fargli uscire il sangue dal naso, da fargli sentire “il lampo in un orecchio, nell’altro il paradiso”. 

Il bambino adesso piange nel vedere i suoi familiari e i membri della tribù morire bagnando il terreno bianco invernale di sangue rosso. Tutto ciò nell’immagine del suo sogno diventa un albero della neve (arbusto tipico dell’America) che fiorisce non di fiori bianchi e delicati, bensì di stelle rosso sangue.

Le lacrime più piccole, le lacrime più grosse,

Quando l’albero della neve fiorì di stelle rosse.

La fine

Con queste parole finisce tutto. Il bambino dice soltanto che “ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek”, utilizzando la parola “letto” sia letteralmente (letto di un fiume) sia metaforicamente (i bambini uccisi quella notte ora hanno come letto un fiume per il loro riposo eterno). Ora si passa alla penultima strofa nella quale la narrazione passa al mattino seguente. Il sole si affaccia sulla Terra, illumina la scena e mette in mostra tutto ciò che è rimasto; distruzione, fumo, tende capovolte, cani. Pensiamo ad una scena silenziosa, come ci suggerisce la musica che cambia di nuovo.

Il protagonista scaglia tre frecce, La prima al cielo, la seconda al vento. Per quanto riguarda l’ultima freccia, sappiamo che dobbiamo cercarla, sul fondo del fiume simbolo della morte, della belva umana e dell’ingiustizia.

Per concludere il bambino ripete nuovamente ciò che aveva detto all’Inizio, ma non sottolinea più che c’è un dollaro d’argento nel fiume, ma ribadisce: “ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek”. Dunque la canzone finisce con l’immagine stessa della fine, la morte.

La battaglia nella canzone e nella realtà

Il testo è profondamente struggente per via della musica, delle parole del bambino e di come le imposta vocalmente De André. Il protagonista-narratore non racconta nessuno degli strazi commessi dai colonizzatori. Tuttavia si limita a dire che gli hanno strappato il cuore, e che ha visto un albero della neve fiorire di stelle rosse.

Nella canzone, quello che si ascolta è di un bambino che ha vissuto la nottata del 29 novembre 1864 probabilmente nascosto nella sua tenda, costretto a costruirsi immagini psicologiche sulla base di ciò che sentiva e di quel poco che riusciva a sbirciare.

De André omette che quella notte Chivington e i suoi, uccisero vigliaccamente tantissimi uomini tra Cheyenne e Arapaho. Lo fecero nei modi più atroci. Violentarono le donne prima di ucciderle. Usarono i bambini per soddisfare il loro macabro senso del divertimento, sfruttandoli per il più triste dei tiri al piattello. Molti dei corpi vennero mutilati, e le parti del corpo tagliate (come nasi e testicoli) vennero prese come trofei.

All’avvicinarsi dei soldati di Chivington, il capo tribù fece riunire tutti intorno ad un palo su cui si ergeva una bandiera degli Stati Uniti d’America (ricevuta in dono proprio per via dell’accordo di pace). Una bambina piccola avanzò con una bandiera bianca. Allora il capo si mise davanti e gridò in inglese di fermarsi, mentre teneva le mani in alto. Questo non servì ad evitare la morte, né la sua, né della bambina, né degli altri.

Un anno dopo Chivington venne giudicato dalla commissione d’inchieste del Congresso degli Stati Uniti d’America. Questa si dissociò fortemente delle azioni del colonnello, a partire dagli omicidi fino ad arrivare al suo ritorno a Denver dove si vantò eroicamente. La commissione sottolineava che nonostante Chivington indossasse la divisa statunitense, il popolo a stelle e strisce intendeva prendere le distanze dall’accaduto.

Nonostante più volte gli Stati Uniti chiesero scusa apertamente, molti protagonisti del massacro non vennero neanche arrestati. Sul fondo del Big Sandy Creek, c’è ancora un dollaro d’argento, una terza freccia che ha l’onere di essere cercata, e bambini che dormono, seppure a volte i pesci ancora cantino sul fondo del Sand Creek.

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