Elon Musk

Elon Musk e il fisco: la “furbata” delle azioni

Sono ormai diversi anni che il profilo di Elon Musk, il miliardario sudafricano naturalizzato statunitense, si è imposto nell’opinione pubblica. Già fondatore di aziende rivoluzionarie e di successo come PayPal, a mettere il suo nome sulle bocche di mezzo mondo hanno contribuito in particolare la casa automobilistica Tesla e la fortunata campagna pubblicitaria del progetto visionario di SpaceX, che porta avanti l’ambizioso obiettivo di condurre l’uomo a colonizzare Marte.

Personaggio pubblico

Un po’ per lo spirito innovatore, un po’ per il carattere affabile e aperto verso il pubblico (Musk vanta oltre 60 milioni di followers su Twitter, più di 20 volte quelli del “collega” miliardario Jeff Bezos), il suo nome è diventato una vera e propria icona di Internet, oltre a essere un simbolo del progresso nell’immaginario comune. Un simile successo d’immagine è coinciso con la straordinaria crescita economica attraversata in contemporanea dalle sopracitate Tesla e SpaceX; crescite che hanno consentito all’imprenditore di accrescere il proprio patrimonio di ben 155 miliardi di dollari nonostante la crisi pandemica, facendone de facto l’uomo più ricco del mondo.

Crescita del valore azioni Tesla dal 2010 ad oggi – Capital.com

Proprio su Twitter, piattaforma dove è più attivo, il 6 Novembre scorso Musk ha sorpreso tutti, pubblicando un sondaggio in cui affidava ai suoi followers una decisione non di poco conto: se vendere o meno il 10% delle proprie azioni Tesla. Musk è infatti recentemente finito al centro della bufera, coinvolgente tutti i ricchissimi del mondo, riguardante il mancato pagamento di quanto dovuto al fisco. In particolare, il fondatore di SpaceX è risultato non aver pagato nemmeno un dollaro in più di cinque anni. Com’è possibile?

La (controversa) politica fiscale statunitense

Negli Stati Uniti, una persona fisica è soggetta a una tassazione federale, imposta dal governo centrale degli USA, solo sul proprio reddito, per una percentuale variabile tra il 15 e il 35%. A questo regime fiscale si aggiungono eventuali imposte statali e locali, valevoli però per lo più per le aziende, “persone giuridiche”. Ci si aspetterebbe dunque che un miliardario come Musk, che in pochi anni ha visto il proprio patrimonio crescere di decine e decine di miliardi di dollari, debbano versare enormi contributi. In realtà, le cose stanno in maniera ben diversa.

È già noto come diverse società e persone fisiche riescano a ottenere la residenza fiscale in alcuni “paradisi fiscali”, come ad esempio le Isole Cayman o Panama. Varie inchieste giornalistiche negli ultimi anni hanno portato alla luce centinaia di casi simili, la maggior parte dei quali raggruppati negli scandali denominati Panama Papers Pandora Papers.

Musk e diversi altri miliardari americani, però, hanno trovato una via alternativa. Negli ultimi 5 anni, infatti, Musk – così come diversi altri miliardari quali Jeff Bezos o Warren Buffett – ha dovuto versare cifre irrisorie al fisco, pari a pochi punti percentuali della crescita del proprio patrimonio. Questo è perché, ad oggi, il CEO di Tesla non percepisce alcuno stipendio. Nonostante sia a capo di due enormi multinazionali, queste non fruttano alcuna entrata diretta nelle sue tasche: la crescita del suo patrimonio è unicamente relativa alla crescita del valore delle sue azioni. Esistendo quindi tale ricchezza solo “in potenza”, ma non avendo alcun guadagno materiale, egli non è tenuto a versare alcun contributo.

La vendita delle azioni

Poiché la ricchezza di Musk è dovuta solo al proprio portafoglio azionario, per diversi anni è riuscito a sfruttare tale scappatoia per non pagare nulla. Tramite questo sistema, lui e molti altri super-ricchi possono vedere il proprio patrimonio crescere indisturbato, e sono tenuti a pagare una cifra compresa tra il 15 e il 20% del valore delle azioni solo quando queste vengono vendute.

Recentemente, però, il dibattito circa l’intoccabilità dei super patrimoni ha acceso l’opinione publica americana, tanto da diventare – formalmente – una priorità per l’amministrazione Biden. Da qui il gesto-provocazione del miliardario star di Twitter, che ha potuto in un colpo solo ripulire l’immagine e al tempo stesso presentarsi come un “intoccabile”, che può decidere anche quando e se pagare le tasse.

Il sondaggio ha vinto col 58% di voti per il “Si”, e Musk è stato comunque di parola: a oggi ha rivenduto il 3% delle sue azioni Tesla, al valore di mercato di circa mille dollari l’una. Si parla di un entrata di circa cinque miliardi di dollari. Su questi, Musk ha effettivamente pagato le imposte dovute al governo, tenendo però per sé un profitto immenso.

Il “doppio colpo”

Ma non è finita qui. Il gesto di per sé potrebbe apparire come un tentativo di riappacificarsi col fisco americano. In realtà, subito dopo aver rivenduto le azioni promesse e aver visto il loro prezzo crollare, ecco che arriva la “furbata”: Musk ha ricomprato oltre due milioni di tali azioni. Si è infatti avvalso del diritto di stock option, che in breve consiste in un accordo prestabilito che prevede che, in futuro, il beneficiario possa acquistare azioni della compagnia a un prezzo prefissato. Nel caso dell’accordo tra Musk e Tesla, quel prezzo era fissato a poco più di sei dollari. In pratica, Musk ha investito quattordici milioni di dollari in un pacchetto di azioni dal valore complessivo di due miliardi e mezzo.

Una mossa, la sua, che non è affatto piaciuta alla Security and Exchange Commision (SEC) americana, l’ente federale americano preposto alla vigilanza finanziaria. L’equivalente americano della Consob ha infatti già da tempo puntato gli occhi sull’imprenditore, non nuovo a certe “bravate”: basti ricordare i precedenti in cui Musk, sfruttando la propria potenza mediatica, è stato capace di alterare il prezzo delle azioni Tesla con solo un Tweet. La torbida gestione di questa situazione è infatti equiparabile al reato di aggiotaggio, crimine finanziario legato proprio alla compravendita di azioni e all’insider trading, cioè allo sfruttamento di informazioni riservate o di posizioni privilegiate in un’azienda ai fini di un guadagno personale.

In attesa di capire se e quali risvolti legali ne seguiranno, la vicenda ha già destato scalpore negli Stati Uniti, dove le pressioni affinché anche i patrimoni dei più ricchi siano tassati si fanno sempre più insistenti. Polemiche del genere, del resto, non sono certo nuove, e si inseriscono in un più ampio contesto globale dove, anche a causa della crisi post-Covid, la maggioranza della popolazione globale fatica sempre più a mantenere una stabilità economica, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e le grandi multinazionali versano cifre irrisorie in tasse. Una situazione socialmente insostenibile, alla quale l’attuale classe dirigente è chiamata a trovare al più presto una soluzione.

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