La grande storiografia artistica tedesca tra ‘800 e ‘900

L’arte, in quanto fenomeno umano, si adatta sempre all’epoca di cui è figlia. Per questo è così importante per la memoria storica la storiografia artistica. Qualsiasi periodo artistico è infatti indissolubilmente connesso alle dinamiche culturali, sociali, politiche ed economiche che caratterizzano una fase storica, determinando profondamente la sensibilità creativa degli artisti. Se si considera l’arte greca, ad esempio, si potrà constatare che lo sviluppo della grande statuaria del periodo classico, di cui furono protagonisti Fidia e Policleto, coincide con l’affermazione politico-culturale della città di Atene. Questa, sotto la guida di Pericle, divenne nel V secolo a.C. l’epicentro politico, sociale, economico e culturale della Grecia. 

Storiografia
Peter Paul Rubens, Venere al bagno, 1612-15, Liechtenstein Museum (Vienna)

Allo stesso modo, ma circa un millennio più tardi, nell’arte barocca, si scoprirà che l’esuberanza e l’esagerazione che costituiscono i suoi tratti distintivi furono il frutto del ‘600. Un secolo dominato da guerre, conflitti e periodi di tensione, che determinarono profondamente le coordinate artistiche di un periodo, il Barocco. Oggi lo ammiriamo compiaciuti, ma il nome fu coniato nel ‘700 con un’accezione negativa, per indicare un momento artistico di decadenza a confronto con il secolo precedente, il ‘500.  Ecco che quest’ultima considerazione sull’arte barocca permette quindi di rilevare diversi aspetti peculiari delle metodologie con cui viene studiata la storia dell’arte. 

Il metodo d’indagine della grande storiografia artistica tedesca

Anzitutto si può constatare come la conoscenza di una fase artistica non possa prescindere, sotto certi aspetti, dalla sua contestualizzazione storica. Se nel ‘700 il termine Barocco veniva impiegato in senso spregiativo, era perché gli intellettuali dell’epoca condividevano una concezione ancora gerarchica di arte e di storiografia dell’arte. Distinguevano quindi i periodi artistici in migliori o peggiori, ritenendo che gli artisti seicenteschi avessero perso quello smalto e quella capacità artistica che erano tipici del Rinascimento. Non erano dunque più in grado di dipingere o scolpire come gli artisti del ‘400 e del ‘500. 

Un cambiamento figlio del suo tempo

Questa tendenza a gerarchizzare l’arte sarebbe poi stata messa in discussione nel periodo a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. In quel frangente storico, la grande storiografia artistica di lingua tedesca, le cui ambizioni erano quelle di diventare Kunstwissenschaft (dal tedesco scienza dell’arte), avviò un nuovo atteggiamento di esplorare l’arte all’insegna del termine Kunstwollen, il volere artistico o volontà d’arte. Gli artisti seicenteschi non realizzavano le loro opere alla maniera dei rinascimentali non perché non fossero in grado di farlo, bensì perché non volevano farlo. Le coordinate socio-culturali erano cambiate, le indagini artistiche si erano evolute e gli artisti ricercavano nuovi linguaggi da esplorare. 

Kunstwollen: il concetto introdotto da Alois Riegl

Occorre innanzitutto sottolineare l’importanza contemporanea del concetto semplice, ma fondamentale, di Kunstwollen. Fu utilizzato per la prima volta dallo storico dell’arte austriaco Alois Riegl all’interno del suo volume del 1901: Le prime cattedrali: l’Industria artistica tardoromana. Ancora oggi è un termine da ricordare laddove si sente parlare di arte contemporanea come di un’arte degenerata o priva di senso. 

Storiografia
Colosso di Barletta raffigurante l’imperatore Marciano

Riegl infatti superò la concezione gerarchica e risolutoria di chi, nello specifico, riteneva che l’arte tardoromana fosse un’arte degradata e non più in grado di realizzare quelle forme perfette dell’antichità classica. Pose anche l’accento sul fatto che in arte non esistono periodi artistici belli e periodi brutti, ma che ciascuno debba essere considerato in virtù della volontà artistica (Kunstwollen) che caratterizza quell’epoca.

Uno dei più grandi errori che si possono fare, diceva Riegl, è quello di scegliere un periodo della storia dell’arte, – ad esempio il V sec. a.C. di Atene di cui si parlava sopra – e pensarlo come il raggiungimento dell’apice e della perfezione. Questo si fissa dunque come metro universale attraverso il quale confrontare tutti gli altri periodi artistici e stabilire quali si avvicinano all’Atene di Pericle e quali invece no. Sotto questo profilo, il testo di Riegl sull’industria artistica tardoromana fu davvero rivoluzionario e determinante per gli sviluppi dell’approccio contemporaneo alla storiografia artistica. 

Heinrich Wölfflin: fotografare l’opera d’arte

Accanto a Riegl e al suo concetto fondamentale di Kunstwollen, occorre citare anche tra le firme più illustri della storiografia artistica tedesca anche Heinrich Wölfflin, storico dell’arte svizzero, attivo tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900.  L’importanza che Wölfflin ebbe sugli sviluppi della storiografia artistica del ‘900 è forse paragonabile a quella che ebbe Roberto Longhi con i suoi studi su Caravaggio. 

Storiografia
Heinrich Wölfflin fotografato da Eduard Wasow

Con Riegl e Burckhardt, Wölfflin costituisce uno dei tasselli imprescindibili per completare quel mosaico di pensatori e storici dell’arte di lingua tedesca che avrebbero rivoluzionato il modo di fare storia dell’arte.  Come protagoniste le loro brillanti e puntuali intuizioni sugli sviluppi che le pratiche artistiche stavano assumendo e sulle stesse tecnologie di produzione e di fruizione dell’opera d’arte. In particolare, le riflessioni più squisitamente pionieristiche che Wölfflin sviluppò si possono rintracciare nei testi Fotografare la scultura (1896) e Concetti fondamentali della storia dell’arte (1915). Due volumi considerati ancora oggi come pietre miliari della storiografia artistica e la cui influenza sul ‘900 fu davvero determinante. 

Fotografare la scultura

Nel primo testo, Fotografare la scultura, la questione che si pone Wölfflin è significativa. Lo storico dell’arte si era reso conto che, già a fine ‘800, la possibilità di fruizione diretta delle opere d’arte, cioè il recarsi dunque di persona per contemplarle, fosse ormai quasi superata dall’accesso alle loro riproduzioni fotografiche. Wölfflin, però,  osserva anche che uno dei problemi della riproduzione fotografica delle opere d’arte risiede nel fatto che non tutte sono adatte per essere riprodotte nella bidimensionalità della fotografia.

Storiografia
Lisippo, Apoxyómenos, 330-320 a.C. circa

Se si considera la scultura, poi, la questione si complica poiché fotografare la scultura, osserva l’autore, significa tradurre qualcosa di scultoreo e plastico in qualcosa che plastico e scultoreo non è, ovvero la fotografia nella sua sterile bidimensionalità. In questo modo vengono meno quella volumetria e quella tridimensionalità che sono proprietà essenziali della scultura, neutralizzando anche la stessa possibilità di fruire l’opera nella sua interezza.

Avviene dunque una di ri-mediazione da parte della fotografia, che fissa la fruizione della scultura ad un unico punto di vista. Così facendo gli stessi orizzonti di senso dell’opera d’arte si perdono e vengono profondamente modificati dalla sua riproduzione fotografica, che vincola ad una fruizione predeterminata. 

Aby Warburg e l’Atlas Mnemosyne

Tra gli anni ’10 e ’20 del secolo scorso fu soprattutto lo storico dell’arte tedesco Aby Warburg a distinguersi per il suo modo rivoluzionario di pensare la storia dell’arte. Warburg può essere considerato uno storico dell’arte ante litteram in quanto la sua impostazione di ricerca lo portava a spaziare gli interessi di studio tra l’iconologia e l’astrologia, fino ad arrivare alla numerologia esoterica. 

Aby Warburg

Questo vasto interesse di ricerca, però,  permise a Warburg di ampliare e rivoluzionare il suo approccio allo studio delle opere d’arte. In modo particolare lo studioso rifiutava la modalità di costruzione cronologica della storiografia artistica, fondata sul susseguirsi cronologico dei periodi artistici. Riteneva infatti che questa impostazione lineare non permettesse di fare emergere con dignità alcune profonde affinità espressive. Quelle che, ad esempio, legano il Rinascimento e l’antichità classica, al di là delle loro distanze cronologiche, e che invece separano nettamente l’arte gotico-medievale dallo stesso Rinascimento, pur essendo due età cronologicamente vicine.

Questa sua riluttanza verso l’articolazione cronologica, che da sempre caratterizza l’impostazione dei manuali di storia dell’arte, portò Warburg a dare vita ad un colossale progetto di ricostruzione parziale della storia dell’arte. Questo fu incentrato soprattutto su motivi formali di raffigurazione del corpo che, a partire dalla scultura greco-classica, erano sopravvissuti e ancora oggi sopravvivono nella memoria culturale collettiva. 

La memoria collettiva rappresentata attraverso gli stati d’animo

Questo progetto di ricostruzione, incentrato in particolare su antichità e Rinascimento, prese il nome di Atlante Mnemosyne: l’Atlante della memoria. Mnemosyne era infatti la dea greca della memoria, intesa però in senso ampio, nei termini cioè di memoria collettiva. Secondo il progetto di Warburg, l’Atlante Mnemosyne non sarebbe stato né un libro, né un manuale artistico, bensì un progetto costantemente in work in Progress. Forse nemmeno effettivamente terminabile per la sua ambizione. 

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Albrecht Dürer, Melancholia I, 1514, Incisione, Staatliche Kunsthalle (Karlsruhe)

La sua intenzione era quella di creare un Atlante, una raccolta interminabile di fotografie di opere d’arte, che permettesse di mappare la grande Mnemosyne dell’Occidente. Ovvero la grande memoria occidentale, psicologica ed emotiva, attraverso le immagini nelle quali si era espressa. L’artista mirava quindi a ricostruire la memoria delle forme di “pathos” (Pathosformeln) dell’Occidente, attraverso fotografie di opere d’arte appartenenti a diversi periodi artistici. In particolare raffiguranti figure le cui posture corporee rappresentavano, secondo Warburg, alcuni stati d’animo fondamentali dell’uomo occidentale che, nel corso della storia delle immagini erano sempre stati rappresentati, e ancora lo sarebbero stati, attraverso determinati archetipi.

In questo modo la grande ambizione di Warburg era quella di ricostruire una sorta di “storia psicologica dell’Occidente” attraverso le varie Pathosformeln con cui questo si era espresso. Tale progetto si concretizzava in pannelli sui quali appendeva riproduzioni fotografiche di opere appartenenti ai più svariati contesti, distanti nel tempo e nello spazio, ma che, proprio in virtù dell’esistenza di questi prototipi rappresentativi, facevano emergere una ricorrenza di modi di rappresentare stati d’animo.

Walter Benjamin e la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte

Walter Benjamin è invece l’intellettuale che più di tutti si avvicina ai giorni nostri con i suoi scritti e con le sue riflessioni, ma che non fu propriamente uno storico dell’arte, bensì più un teorico dell’immagine. Con il suo celebre testo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, rimasto incompiuto a causa della tragica morte del filosofo per mano dei nazisti, Benjamin ha lasciato ai posteri un vero e proprio corpus profetico di riflessioni sullo statuto dell’opera d’arte e sulla sua fruizione da parte degli spettatori contemporanei.

L’opera si presenta come un testo molto breve, ma denso di considerazioni significative. Alcune di queste, se lette dalla prospettiva odierna, risultano essere davvero profetiche. Tuttavia, tra le osservazioni riportate, una menzione di merito spetta alla questione della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte. 

Come la fotografia ha potenziato la riproducibilità dell’opera d’arte

Un tema che Benjamin affronta adottando una prospettiva cronologica molto ampia e osservando, in questo modo, come la riproducibilità dell’opera d’arte non nasce con la fotografia. Il filosofo nota infatti che l’opera d’arte è sempre stata riproducibile, attraverso varie tecniche, ad esempio la fusione, il calco, l’incisione, oppure ancora la copia di bottega. Tuttavia, l’autore precisa che la fotografia ha potenziato e accelerato il processo di riproducibilità dell’opera d’arte a un livello che, prima della sua invenzione, era impensabile. 

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Un livello anzitutto quantitativo per la quantità di riproduzioni fotografiche di un’opera d’arte. Questo aspetto, apparentemente solo quantitativo, produce però una trasformazione anche sul piano qualitativo della fruizione dell’immagine artistica che ne produce in molti casi una sua radicale manipolazione. Consideriamo, ad esempio, la Gioconda di Leonardo Da Vinci. Ecco, è difficile pensare ad un quadro che sia stato più manipolato, trasformato e fotografato di questo.

L’opera d’arte è manipolabile

Tuttavia, la constatazione più profetica elaborata da Benjamin riguarda la polarità tra i concetti di aura e choc nella fruizione moderna dell’opera d’arte. Il filosofo infatti scrive: 

Vi è la tendenza contemporanea a ‘portare più vicino’ le cose a se stessi, una tendenza a superare l’unicità, in ogni situazione, mediante la sua riproduzione […] vi è l’esigenza di impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata, nell’immagine o meglio nella copia.

Benjamin fa notare dunque come la tendenza alla riproducibilità diventi anche una tendenza alla manipolabilità. Questo proprio perché la riproduzione fotografica dell’opera d’arte è qualcosa che non solo riproduce l’opera, ma che al contempo la manipola, poiché la rende disponibile in ogni momento. Da questo punto di vista, Benjamin ebbe davvero un’intuizione geniale sulla fotografia, interpretando la sua invenzione non solo come oggetto ottico, ma anche come oggetto tattile.

Sembrerebbe quasi che Benjamin, con queste constatazioni, avesse prefigurato, già negli anni ’30, addirittura l’avvento del touch screen. E con lui, altri filosofi, citati e non, della storiografia tedesca tra ‘800 e ‘900, hanno contribuito a incorniciare riflessioni avanguardiste e memoriali sulla storia dell’arte, rendendole eterne.


FONTI

Pinotti A., Somaini A., Cultura Visuale. Immagini Sguardi Media Dispositivi, Einaudi-Piccola Biblioteca Einaudi, 2016

Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

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