Karoshi, morti tragiche in Giappone ma non solo

Si può morire per il troppo lavoro? In Giappone, sì. Questo triste fenomeno è conosciuto con il termine karoshi. I karojisatsu sono appunto le persone che muoiono per cause legate più o meno direttamente alle ore di lavoro in eccesso. Può trattarsi di suicidi per il troppo stress accumulato sul lavoro, oppure di problemi cardiaci correlati a un bassissimo numero di ore di sonno.

Uno sfruttamento che porta alla morte

Molto spesso queste tragiche morti avvengono purtroppo tra i giovani che hanno appena concluso il percorso universitario: ragazzi volenterosi disposti a lavorare più del dovuto con la prospettiva di migliorare le proprie condizioni di vita e ripagare i sacrifici fatti dalle famiglie per farli studiare. Le aziende sono consapevoli della loro maggiore disponibilità e la sfruttano il più possibile, consumando queste persone fino allo sfinimento. Spesso, però, dopo averli “spremuti” per qualche anno, li sostituiscono con nuovi giovani a loro volta pronti ad impegnarsi per fare carriera.

I contratti a tempo indeterminato sono sempre più rari, i giovani sempre più sfruttati. E le conseguenze sul piano psico-fisico diventano evidenti. Non tutti giungono ad essere dei karojisatsu: questi ultimi sono i casi più lampanti per la loro tragicità, ma si tratta solo della punta dell’iceberg.

Molte persone iniziano a soffrire di depressione o esaurimenti nervosi, altre hanno seri problemi di salute. Si stima che il 71% dei giapponesi dorma meno di sette ore a notte: ciò è strettamente correlato alla cultura nipponica del duro lavoro.

Due casi estremi: Miwa Sado e Matsuri Takahashi

Tra i casi più estremi di karoshi, vi è quello della giornalista Miwa Sado, deceduta in seguito a un arresto cardiaco, le cui cause vanno ricercate nel troppo lavoro. Infatti, nei trenta giorni precedenti alla sua morte aveva avuto solo due giorni liberi: per il resto, lavorava nei fine settimana e spesso fino a tarda sera.

Un altro caso emblematico è stato quello di Matsuri Takahashi, ventiquattrenne che si gettò dalla finestra nel 2015, dopo aver svolto più di cento ore di straordinari. Inoltre, tutto questo lavoro in eccesso generalmente non è pagato.

In Giappone, il sacrificio è motivo di grande elogio; chi lavora poco, invece, non è visto di buon occhio. Fedeltà all’azienda e dedizione assoluta nello svolgimento delle proprie mansioni sono le ragioni che spingono a fare così tanti straordinari gratuitamente. Si tratta di un problema in gran parte culturale: secondo un rapporto di governo risalente al 2016, il 12% delle aziende giapponesi ha dipendenti che fanno più di cento ore di straordinari al mese.

Un grave fenomeno che continua a crescere

La grave situazione della penisola nipponica è emersa soprattutto negli ultimi anni, benché si tratti di un fenomeno risalente già agli anni Ottanta, periodo di grande crescita economica. Sono state proposte diverse iniziative volte alla tutela della salute dei lavoratori. Tra queste, una legge che riforma le ore di lavoro che si possono svolgere: i dipendenti non possono sforare le quarantacinque ore extra al mese e le 360 annue, che diventano rispettivamente 100 mensili e 720 annuali in periodo di lavoro intenso per un massimo di sei mesi all’anno. È anche prevista una multa pari a 300.000 yen (circa di 2.500 euro) per le aziende che dovessero violare la norma. Non è però una cifra così elevata per le grandi aziende.

Certamente la prevenzione è la chiave per risolvere quello che il professore di sociologia Scott North (Università di Osaka) ha definito “un problema cronico”. Tuttavia, come afferma lo stesso sociologo, si è ancora lontani da una concreta risoluzione. È necessario, infatti, un radicale cambiamento nella mentalità giapponese.

Nonostante le numerose iniziative per concedere ai lavoratori maggior tempo libero, è ritenuto ancora disonorevole sottrarre tempo alla propria professione per dedicarlo a sé stessi, anche se si ha già adempiuto ai propri doveri quotidiani. Eppure, le conseguenze di un mancato riposo regolare generano un forte malessere che, a lungo andare, danneggia anche le stesse prestazioni lavorative.

La paura che si possa diffondere

Purtroppo, il fenomeno karoshi oggi non è limitato soltanto alla penisola nipponica. La mentalità frenetica del mondo odierno, che guarda alla produttività anziché ai singoli individui, ha fatto sì che anche in Francia, presso l’azienda di telecomunicazioni Orange, si siano verificati diversi suicidi (pare più di trentacinque) tra i lavoratori negli anni 2008-2009. Pure in Cina, nell’azienda Foxconn, si sono verificate quattordici morti sospette. A Londra, nel 2013, il giovane ventunenne Moritz Erhardt è morto dopo settantadue ore di lavoro ininterrotto. Tragicamente simile la storia dell’indonesiana Mita Diran, deceduta a soli ventiquattro anni per il troppo lavoro.

Queste sono morti insensate. Morti che stroncano persone zelanti, produttive, che si erano appena affacciate al mondo del lavoro e che avevano grandi ambizioni per il loro futuro. Fortunatamente il fenomeno è ancora scarsamente diffuso nel resto del globo, ma i casi preoccupanti citati nel paragrafo precedente mettono in luce la mentalità malata che colpevolizza l’umana necessità del riposo. Bisogna cambiare prospettiva, affinché non possa più accadere – né in Giappone né altrove – che dei giovani dediti al lavoro logorino la propria salute in questo modo.

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