riproducibilità tecnica Benjamin

L’epoca in cui l’aura è morta

Nella nostra epoca, che Walter Benjamin definirebbe epoca della riproducibilità tecnica, l’aura è morta. La novità della società di oggi non è la riproducibilità in sé: da sempre l’opera d’arte, ma più in generale ogni cosa realizzata dagli uomini, è riproducibile. La vera novità è l’esser “tecnico” della riproducibilità. Un termine che, forse, potrebbe confondere data la diffusione odierna di questa modaltià di riproduzione. Walter Benjamin racconta come la riproducibilità tecnica abbia modificato il rapporto che l’uomo ha con l’arte e con la sua percezione. I Greci possono essere un esempio per chiarire le idee: loro conoscevano infatti due procedimenti per riprodurre tecnicamente, la fusione e il conio. Queste due tecniche gli permettevano di riprodurre bronzi, monete e terrecotte in grandi quantità senza il bisogno di una mediazione umana che potesse, in qualche modo, alterare la produzione delle diverse copie rispetto al primo modello.

Attorno alla riproduzione tecnica si è aperto, nel corso della storia, un dibattito in cui si oppongono coloro che vorrebbero inserire fra le arti ciò che questa riesce a produrre e coloro che, invece, considerano queste elaborazioni una mera riproduzione meccanica; questo dibattito, all’inizio del ‘900, è diventato ancor più complesso: la fotografia, ormai affermata e diffusa, e il cinema, ai suoi primi albori, hanno trasformato la comune concezione di arte.

Ciò di cui è priva la riproduzione tecnica è l’autenticità conferitagli dall’hic et nunc. La mancanza di autenticità rende impossibile un confronto con il falso: nella tecnicità non esiste originale e copia, viene a mancare la dualità.

Andando al cinema non viene mai utilizzata la pellicola o il supporto su cui il film è stato registrato, e nessuno si pone il problema, mentre per un dipinto, una copia, anche se realizzata perfettamente, non avrà mai il valore dell’originale, sostenendo che l’esperienza che la copia potrà regalarci non sarà la stessa.

Quello che viene a mancare per Benjamin è il concetto di “aura”. Un’aura che oggi tendiamo inconsciamente a eliminare. Una delle esigenze delle masse è quella di rendere ogni esperienza, inclusa quella dell’arte, vicina e accessibile. La riproduzione in questa esigenza gioca un ruolo fondamentale, permette di democratizzare le esperienze e permette alle persone di impossessarsi di copie. La fotografia è stato il primo mezzo di riproduzione che ha aperto alle masse questa possibilità e il primo mezzo a far tremare l’arte.

Benjamin, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, dice “Nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte”.

Viene meno il rituale su cui si fondava la nascita e il perdurare dell’aura legato a una determinata opera e si instaura una nascita di carattere politico.  Nel momento in cui l’uomo scomparve dalla fotografia il valore espositivo di essa superò quello culturale: Atget nel 1900 fotografò le vie parigine vuote e, proprio grazie a lui, le fotografie iniziano ad assumere un valore di prova nel processo storico come documento.

Attore e pubblico sono un altro binomio da analizzare per poter fare un confronto tra riproduzione tecnica e umana e comprendere come il concetto di aura sia scomparso. A teatro l’attore si presenta al pubblico in prima persona mentre la prestazione dell’attore cinematografico viene presentata al pubblico tramite un’apparecchiatura. La macchina si prende, nella registrazione, delle libertà: deve costantemente prendere delle posizioni nei confronti della prestazione, l’operatore la muove in modo tale da inquadrare e scartare, dalla giusta angolazione e punto di vista, ciò che meglio crede. La prestazione dell’attore viene filtrata da una serie di “test ottici”, e tramite questi viene mostrata al suo pubblico.

La seconda differenza presentata da Benjamin è l’impossibilità dell’attore cinematografico di adeguare la sua interpretazione durante lo spettacolo; il pubblico è chiamato a giudicare un’interpretazione con la quale non ha avuto un contatto diretto e nella quale si è immedesimato tramite un apparecchio, senza poter essere in qualche modo turbato.

Pirandello è stato uno dei primi a osservare la trasformazione che la macchina da presa ha portato nel campo della recitazione, Benjamin riassume così il suo pensiero:

Per la prima volta l’uomo viene a trovarsi nella situazione di dover agire sì con la sua intera persona vivente ma rinunciando all’aura. Poiché la sua aura è legata al suo hic et nunc. (…) L’aura che circonda l’interprete deve così venir meno – e con ciò deve venir meno anche quella che circonda il personaggio interpretato.

E, aggiungerei, quella che dovrebbe nascere nel pubblico.

La difficoltà dell’attore cinematografico è dovuta anche alla frammentazione della sua prestazione: il suo lavoro non è mai unitario ma è composto da diverse operazioni, girate, molto frequentemente, non seguendo un ordine cronologico e di causa/effetto. Il disagio che l’attore prova di fronte alla macchina da presa è lo stesso – per Pirandello – che l’uomo prova di fronte alla sua immagine allo specchio.

Per far fronte alla mancanza di aura il cinema ricorre a una costruzione artificiale fuori dagli studi: il culto del divo. La tecnica del film implica che gli spettatori possano assumere il ruolo di semi-specialisti e, da questo ruolo, oggi più che mai, il salto che separa lo spettatore dalla possibilità di esser ripreso o di riprendere è molto breve, anzi, si sta quasi annullando.

Lo stesso fenomeno è avvenuto per la scrittura: con l’espansione della stampa sempre più lettori hanno avuto la possibilità di passare dalla parte degli scrittori. La distinzione tra autore e pubblico è sempre più sottile: non esiste più una separazione netta, la distanza, grazie alla diffusione di certi mezzi, è diminuita; ad aumentare è stata la percezione alterata della propria conoscenza su un dato argomento o disciplina.

Il cinema, anche nelle occasioni in cui diviene mezzo di denuncia sociale, si offre al pubblico non imponendo attenzione. È una ricezione distratta, che per Benjamin si stava diffondendo in tutti i settori dell’arte, che rappresenta “il sintomo di profonde modificazioni nell’appercezione” e trova nel cinema il miglior strumento su cui esercitarsi.

L’arte, così come ha cambiato gli strumenti attraverso cui si esprime, si trova costretta a ripensare se stessa: il concetto di aura che era ciò che determinava il valore di un’esperienza e dell’arte stessa è, a oggi, in numerose realtà che consideriamo artistiche ma non solo, dimenticata. Oggi l’esperienza è considerata tale nel momento in cui è accessibile e condivisibile: basti pensare alla necessità di fare foto o video di quello che viviamo. Siamo noi stessi a filtrare la realtà con questi strumenti, l’aura è morta – o sopravvive in pochi e rari casi – quello che cerchiamo è la possibilità di impossessarci dell’esperienza, di renderla, in qualche modo, fruibile ad altri e nel futuro. Benjamin, nel 1936, riusciva già a vedere come il rapporto con l’arte, considerata come esperienza, sarebbe cambiato.


FONTI

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,

Walter Benjamin

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