Kintsugi: l’arte giapponese in cui l’oro ripara le ferite

Il kintsugi è l’arte di esaltare le ferite. Può essere considerata una forma di arte-terapia che vi invita a trascendere le prove affrontate trasformando in oro il piombo della vostra esistenza.

Questa frase, tratta dal libro di Celine Santini, Kintsugi-L’arte segreta di riparare la vita, edito da Rizzoli, è una sintesi metaforica che offre una discreta introduzione al tema. Un buon punto di partenza per comprendere l’antica tecnica giapponese del “riparare con l’oro” come azione fisica o artistica e carpirne il valore sul piano filosofico e psicologico.

Prendiamo un vaso. I vasi si rompono. E la prima cosa che viene spontaneo fare, dopo l’incidente o il momento di rabbia che ne ha causato la rottura, è quella di cercare solo di andare oltre. Magari sostituendo quello rotto con uno nuovo. Il kintsugi (kin: oro e tsugi: riparazione) invece prevede un’altra risposta, un trattamento diverso della rottura e, sicuramente, molto più impegnativo. Quello di rimettere insieme i pezzi, tramite un lungo procedimento, e in maniera preziosa, saldandoli con una lacca e decorando poi il tutto con polvere d’oro.

Tazza da tè hakeme in ceramica Mishima con lacca in oro, XVI secolo

Ashigaka Yoshimasa: la leggenda dell’origine

L’arte di ricostruire con l’oro, secondo le testimonianze a disposizione degli storici, risale al quindicesimo secolo ed è associata alla figura, realmente esistita, dell’ottavo shogun – dittatore militare a capo del governo – dell’epoca Muromachi, Ashigaka Yoshimasa. La leggenda narra che, durante la cerimonia del the, si ruppe per errore una tazza alla quale lo shogun era molto legato, a tal punto da ordinare ai suoi artigiani di ricostruirla subito.

Non chiese di averne una nuova, chiese di riavere quella appena rotta, in quanto preziosa, personale e unica. Un comune artigiano avrebbe cercato di ricomporre i pezzi, cercando di rendere il meno possibile evidenti le giunture. Ma non quelli al servizio dello shogun.  Essi decisero invece di ricomporre senza tentare di nascondere le crepe, cercando invece di valorizzarle con resina e polvere d’oro.

La leggenda non narra poi la reazione del dittatore, ma lascia intendere che Ashigaka apprezzò molto l’originale soluzione proposta dai suoi artigiani, poiché da allora quella tecnica, il kintsugi, si diffuse in tutto il Giappone. E ancora oggi,  tramandata spesso di padre in figlio, continua a stupire e a ricevere apprezzamento anche a livello internazionale.

Tosa Mitsunobu, raffigurazione di Yoshimasa

Tra psicologia, filosofia e tecnica

In modo molto semplicistico, potremmo riassumere il kintsugi in tre tecniche. La prima, chiamata Hibi, consiste nel riparare le crepe nel modo descritto precedentemente. La seconda, Kake No Kintsugi Rei, prevede la creazione dell’eventuale pezzo mancante del vaso, realizzandolo su misura in lacca e oro. Con la terza, Jobitsugi, l’artigiano si serve di pezzi provenienti  da un’altra porcellana o un oggetto di diverso materiale, ma di regola molto simile e di pari valore.

Ma non c’è solo lavoro manuale dietro alla creazione di queste opere d’arte. Come avrebbe detto l’antropologo e psicologo Gustave Le Bon, “l’azione senza il pensiero è uno sforzo vano”. E per cercare di capire il pensiero che c’è dietro questa tecnica si può fare riferimento alla concezione giapponese del Wabi-Sabi. Una formula che possiamo tradurre come: meraviglia di fronte alla natura e accettazione della transitorietà delle cose.

Non si tratta solo di una tecnica di restauro. Metaforicamente, le fratture dell’oggetto riflettono le asperità e i cambiamenti che l’essere umano può  affrontare durante la sua vita. La riparazione del vaso spaccato lungo la via del kintsugi rappresenta quindi la possibilità di riparare le ferite, ricomponendo senza negare.

Piccola riparazione su piatto in ceramica Nabeshima con motivo malvarosa, XVIII secolo

Il riflesso sulla personale esperienza psicologica

Seguendo quella stessa via, la persona può compiere un percorso di risanamento delle proprie ferite interiori o di quelle nelle relazioni. E non importa quante siano: se si hanno i pezzi e il giusto collante, si potrà ricostruire, procedendo poi rinnovati e arricchiti dall’esperienza verso una nuova vita con una forma di perfezione maggiore. Talvolta, quando si tratta di relazioni, il tema centrale è quello del perdono, come ben sanno coloro che ad esempio adottano la logica del Kintsugi nella mediazione familiare.

L’esperienza del perdono è un’esperienza di resurrezione. L’amore che pareva morto, finito, gettato nella polvere, senza speranza, ritorna in vita, ricomincia, riparte.

Tutto sta, secondo il modello creato secoli or sono dagli artigiani alla corte dello shogun, nella capacità di resilienza, intesa non solo come resistenza. Nel nostro saper trasformare, non nascondere, il dolore o magari la delusione sviluppando un atteggiamento di cura per noi stessi e per i legami con gli altri.

Kintsugi a Brescia con i Cocci di Covid

Nell’ultimo anno segnato dalla pandemia dove, in uno scenario da incubo, si sono moltiplicate le ferite individuali e le fratture sociali, il riparare con l’oro ha trovato un’attenzione non sorprendente. Sono state tante le mostre dedicate a questa arte, come quella dello scorso autunno nella storica Lanserhaus di Appiano in Alto Adige a cura di Hans-Jurgen Hafner (La bellezza dei cocci rotti – L’arte della riparazione). In questo caso le opere hanno spesso costruito un legame diretto e drammatico col dolore prodotto dalla pandemia.

Anche nella galleria L’altra arte di Bagnolo Mella a sud di Brescia, ha avuto successo il progetto Cocci di Covid dall’hashtag emblematico nella sua drammatica verità #nonèandatotuttobene. Protagoniste sono tutte quelle ferite inferte dalla pandemia, talvolta celate da chi ha operato nel settore medico, per dar

Sono cicatrici da nascondere al paziente: è necessario mostrarci forti. Dietro, invece, sappiamo che la stanchezza, la potenza del virus, i turni infiniti ci logorano e feriscono.

Svestiti  i camici, alcune infermiere dell’ospedale di Brescia  si sono fatte fotografare come statue spezzate e ricomposte secondo l’arte del kintsugi. Sui loro volti e corpi, cicatrici d’oro, per mostrare e richiamare sofferenze non esprimibili con i pazienti dentro l’ospedale. Questo è il modo in cui questa millenaria arte giapponese cerca di raccontare la bellezza attraverso la ricostruzione.


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