Marcela Marambio dialect coach intervista

Intervista a Marcela Marambio: come lavora un dialect coach

Parlare con Marcela Marambio è come seguire una sinfonia guidata da un direttore d’orchestra: le parole scorrono fluide e l’intonazione dà vitalità ai concetti, mentre le mani li disegnano nell’aria rendendoli concreti. Ad ascoltarla ci si sente quasi come uno dei tanti attori importanti con cui ha collaborato sui set di mezzo mondo.

Marcela è una dialect coach e, se l’italiano di Jonathan Pryce in The Two Popes o l’inglese di Matilda De Angelis in Leonardo vi sono suonati melodici, prima ancora che ben pronunciati, è anche grazie a lei.

Eppure, se 15 anni fa non si fosse imbattuta in Roisin Carty (colei che ha fatto in modo che le battute in elfico del Signore degli Anelli suonassero naturali, per intenderci), Marcela non avrebbe scoperto di poter fare la dialect coach. Si tratta infatti di una di quelle nuove figure ancora poco conosciute nel nostro Paese, che curano dettagli piccolissimi ma determinanti per la qualità di film e serie tv. E che meriterebbero di essere pian piano riconosciute come veri lavori, dice Marcela, per aprire prospettive internazionali alle produzioni e ai giovani attori italiani.

Sui set ci sono sempre più coach di ogni tipo (penso anche agli intimacy coordinator). Cosa fa un dialect coach e come sgrava il lavoro di registi e sceneggiatori?

C’è sempre una linea sottile dei ruoli. Io sono una dialect e una accent coach, quindi il regista non deve stare ad ascoltare e controllare che tutto sia chiaro e in accento. Nel senso che – questo succede più nei film in inglese – un regista può anche scegliere un attore inglese per interpretare un americano e viceversa, oppure una persona che è newyorkese deve fare un accento dell’Alabama, e lì subentriamo noi.

Se lo si guarda in pienezza, questo dovrebbe alleggerire il lavoro del regista, che ha tante cose a cui pensare. L’unico problema è che a volte il regista pensa che diamo delle indicazioni registiche. Ma io non sono una acting coach, io sono dialect coach. Per me quello che è importante è la musicalità, la chiarezza, il rimanere in accento, con una voce che combacia e va di pari passo con l’attore. Non deve essere una cosa fittizia.

Marcela Marambio dialect coach intervistaSpesso i coach vengono da altre carriere e poi decidono di mettere le loro competenze a disposizione dell’industria dell’intrattenimento (ad esempio, molti intimacy coordinator sono sessuologi o ex stuntmen). Qual è il tuo percorso?

Prima di tutto io sono trilingue e ho avuto la fortuna di avere dei genitori molto all’avanguardia: mio papà viaggiava per lavoro e ha sempre fatto in modo che sia mio fratello che io andassimo in una scuola inglese. Quindi sono cresciuta [tra Cile, Italia e Regno Unito, ndr] proprio con una mente divisa in tre: spagnolo, inglese, italiano. Prima insegnavo inglese, ma ho studiato politica internazionale all’università, cioè tutta un’altra cosa. Sono capitata su un set un po’ per caso, perché parlavo inglese. Una mia amica cercava una babysitter per i figli di uno scenografo americano e da lì è iniziato tutto un percorso: mi hanno richiamata e ho visto che c’era una persona che faceva questo lavoro. È stato 15 anni fa, e lì ho detto “credo che questo è quello che potrei fare”.

Come ti sei formata?

Io sono un po’ secchiona, quindi ho studiato tanto. Sono andata più volte in Inghilterra a studiare fonetica, suoni, accenti. Poi ho anche la fortuna di avere un orecchio molto musicale, ho anche suonato… Sì, sono secchiona e ho un orecchio per cui mi ritrovo un po’ a imitare le persone, anche sull’autobus!

Nel concreto come funziona il lavoro con gli attori?

È un po’ come consegnare un diamante al regista: non so come deciderà di girare, quindi il mio ruolo è dire all’attore: “Se lui o lei la pensa così, tu sei pronto e sai dove andare”. L’accento non è completamente una mia decisione. Non so fare tutti gli accenti, ovviamente. La produzione mi dà il tempo (se ci sono più soldi ho più tempo, se ci sono meno soldi meno tempo) di prepararci e di sapere a cosa stiamo andando incontro. Da lì si inizia a lavorare.

Ogni dialect coach ha il suo metodo?

Io ho un’ossessione per l’intonazione e la musicalità della lingua. Quello che per me è davvero importante è che l’attore si identifichi con quella voce in un’altra lingua, perché così riesce a modulare. Sai, noi ci ascoltiamo in lingue diverse e diciamo: “Ma, sarò io?”. Quindi faccio molti esercizi di vocalizzazione, tento di far capire all’attore come cambia l’intonazione in quella lingua. Tutti pensano: “Oh, ma lui o lei parla inglese!”. Sì, ma non è quello. È che tu stai facendo tutta un’altra cosa. Paragonato ai colleghi con cui ho lavorato, alcuni hanno altri modi di insegnare, usano molta ripetizione. Io ho un mio metodo, non uso più la fonetica perché gli attori non la conoscono. A volte faccio una homemade phonetics [una fonetica fatta da lei, ndr] e gli divido le cose, ma il metodo dei segnetti ormai me lo do in fronte! Ho fatto corsi pure per quello, ma non lo uso. E poi io lavoro molto per immagine.

Cioè?

Spiego agli attori come può essere per me un suono, quindi tento di farglielo immaginare. Mi hanno detto – non lo sapevo – che io parlo e lavoro per immagini. Ad esempio, dico: “Hai presente un insetto che si arrotola? Ecco, la vocale si deve arrotolare così”. Non tutti lo capiscono, però è una cosa che funziona abbastanza, devo dire.

C’è una differenza strutturale nel lavorare con un attore italiano o spagnolo che deve parlare in inglese, o viceversa?

Sì, molto. Tutti dicono che l’italiano e lo spagnolo sono lingue simili. Ma uno spagnolo puro, ad esempio di Madrid, parla velocissimo, tutto davanti, non apre la bocca, non articola. Un italiano invece usa proprio l’intonazione: a volte, per cultura, enfatizza proprio il soggetto (“IO ti amo!”). L’inglese non è così. Quindi devi proprio rompere uno schema e ricostruirlo, mettiamola così.

C’è un minimo di libertà creativa nel vostro lavoro? Potete permettervi di cambiare piccole cose o fare dei piccoli suggerimenti a cui magari un regista non aveva pensato?

Non lo so. Se il regista mi dice “guarda, se l’attore ha difficoltà con qualcosa lo puoi semplificare,” si può fare. Però deve essere il regista, lui è l’amministratore delegato [fa il segno di una piramide, ndr]. Lo sceneggiatore pure: è una persona che ha scritto perché qualcuno lo interpreti. It’s a fine line [è una linea sottile, ndr], dove uno può andare o no. Io sono un po’ quadrata: questo è quello che hanno scritto, manteniamolo.

Nel podcast ufficiale di Leonardo hai detto che la musicalità è più importante della pronuncia, perché il pubblico non si chiede come un attore ha pronunciato quella parola, ma come gli suona quella parola. Come intervieni se una sceneggiatura è scritta in maniera poco musicale?

La musicalità per me è dare il tempo. Cioè, se una battuta è più lunga la divido. Prendiamo l’inglese standard: è come se il suono fosse un serpente, un’onda, quindi lo divido in tre parti. E poi ci sono alcune cose che devi insegnare all’attore, come dire: “Guarda che c’è scritto questo, ma si sentirà questo”. In inglese quello che succede molto spesso è che le parole si uniscono e diventa tipo un suono, ed è quello che cambia. Quindi se dividi le parole, poi arriva qualcosa di completamente diverso. Io do il tempo musicale: uno, due, tre [schiocca le dita, ndr] e poi chiudi. Non so se funziona sempre, però, insomma, fino adesso qualcosa…

Marcela Marambio dialect coach intervistaBeh, con Leonardo sembra aver funzionato. Gli attori italiani avevano una fluidità in inglese che raramente si vede. Come avete impostato il lavoro?

Eravamo due dialect coach e ci siamo divisi gli attori, perché con le serie così lunghe è una cosa normale. Siamo stati fortunati perché c’erano Matilda De Angelis e Alessandro Sperduti, poi Carlos Cuevas che è spagnolo. Lui poteva mantenere quella sua spagnolità perché il suo personaggio [il pittore Salaì, ndr] non sappiamo bene da dove viene, però il ritmo non è quello spagnolo. Sono stata in preparazione per un mesetto e più con loro. Sono stata fortunata perché questi giovani attori sono fighi, sono bravi, sono grandi lavoratori. E non è detto che sia sempre così, può succedere che uno sia più pigro oppure abbia meno orecchio. Però è stata una fortuna.

L’accento come è stato deciso?

La verità è che Aidan Turner, che è irlandese, scegliendo di fare un accento inglese ha dato il la. Il mio alzare l’asticella è stato un lavoro un po’ ambizioso, ma altrimenti Turner sarebbe sembrato un figlio di nessuno. Con Game of Thrones puoi lasciare che tutti abbiano i loro accenti, ma è Game of Thrones. Invece qua c’era bisogno di neutralizzare, di essere simili, di creare una cosa omogenea. Se Aidan Turner fosse arrivato con un accento irlandese o avesse deciso di fare un accento italiano, forse le cose sarebbero cambiate. Poi ovviamente volevo che gli attori non fossero doppiati. Al giorno d’oggi, nel 2021, hanno belle facce, devono far sentire la loro voce. Il cinema è cambiato, la televisione è cambiata. Prima davi solo il movimento, poi arrivava uno con una voce figa e ti doppiava. Stiamo tentando di cambiare quello. Bisogna dare una spinta agli attori. Se tu fai un accento morbido all’orecchio, non ti doppiano.

Fortuna che, almeno in streaming su RaiPlay, la serie era disponibile anche in inglese…

Esatto, sono rimasti loro, era la loro voce in quella lingua. Questo è stato molto importante. Lux Vide ci permette di poter fare queste cose in inglese, loro sono stati i primi a portare avanti questi progetti. L’inglese è la lingua del cinema, ti permette di avere un mercato aperto. Come in Italia, la gente odia leggere i sottotitoli. Poi l’inglese è una lingua musicale, corta, concisa.

A questo proposito, Leonardo capita in un periodo in cui le coproduzioni internazionali sono sempre più frequenti. Questo cambiamento ha aperto nuove prospettive per il vostro lavoro?

Sì, c’è tantissimo lavoro. Le coproduzioni cercano gente come noi. In Italia non siamo in tantissimi, perché non è considerato ancora un mestiere. C’è sempre un po’ quella cosa: “Ah, ma fai l’insegnante di inglese? Guarda, stiamo girando in inglese!”. Invece in Inghilterra è considerato un lavoro: nella mia agenzia siamo solo dialect coach, non c’è altro. Hanno 50-40 persone, e se hai un’agenzia così vuol dire che il lavoro c’è. In Italia invece mi scambiano per acting coach. Anche per questo ho accettato di fare questa intervista, per sottolineare un po’ che ci sono mestieri nel cinema che sono nuovi e quindi è giusto che la gente sappia, che si venga a sapere che non è che perché l’attore parla inglese, poi è riuscito a recitare in inglese. Dietro c’è un lavoro, anche se non sempre. Per quanto riguarda i film e le serie internazionali, c’è sempre una backstory: se un attore parla con un accento americano sicuramente ci sarà una spiegazione, cosa che in Italia ancora non abbiamo.

Oltre alle competenze tecniche ci sono anche quelle più umane. Roisin Carty dice che un dialect coach deve essere di supporto ma invisibile. Il sito Careers.Broadway inserisce invece tra i requisiti la pazienza. Ti ci ritrovi?

Sì, perché non sei tu al centro dell’attenzione. Sei presente, ma non stai addosso alle persone. Nella troupe, sul set, passiamo molte ore insieme, a volte anche in spazi con fili per terra, macchine da presa, gente che porta cose, quindi tra un ciak e l’altro non ci sono solo io. C’è chi sistema i capelli all’attore, il regista che gli dice delle cose, il trucco, il vestito, forse ha sete… In inglese si dice You have to choose your battles, devi scegliere quando è il momento. Non sempre riesci, ma non è su di te la cosa, sono loro. Quindi devi anche trovare come dirgli le cose e non ogni volta, sennò ti mandano a quel paese. Se un attore ha una scena in cui urla o piange non puoi stare lì a dirgli che è andato fuori accento. Piuttosto scrivi alla segretaria di edizione e dici che sicuramente ci sarà da fare ADR [Automated or Additional Dialogue Replacement, ndr] in post-produzione. Sono io a rapportarmi con la segretaria di edizione per dirle se per me quello è meglio oppure no. A volte mando io stessa una nota. Bisogna essere pazienti.

Ultima curiosità: quando guardi i film o le serie tv te le godi da spettatrice o invece c’è sempre l’orecchio che cade sugli accenti?

Me le godo per imparare, perché c’è sempre da imparare. Ma ogni tanto anch’io sento che qualcosa non va. Mi sa che diventa più forte di me. Tipo, “Ma che sta a di’? Ma che è?”. Oppure quando senti che – oops! – è uscito dall’accento. Però c’è anche da dire che quando montano i film o le serie non è la battuta, la prima cosa: è il movimento di macchina, la recitazione. Quindi se facciamo 10 ciak non so se sceglieranno sempre quello che consideri il migliore. Si sceglie sempre il movimento di macchina. Ma anche lì la secchiona un po’ la faccio!


CREDITS

Immagini gentilmente concesse da Marcela Marambio

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