L’arte e il dramma della migrazione nel Mediterraneo

Inevitabilmente, il dramma delle migrazione ha chiamato in causa l’arte, la sua capacità di interpretare le tensioni e le sofferenze del tempo. E molte sono state le risposte in questi anni. Tutte o quasi volte a interrogare le coscienze, contrastare l’indifferenza, mettere in discussione le certezze, chiamare all’impegno.

Questo, con riferimento ai diversi contesti. Uno dei tratti del rapporto tra arte e migrazione è stata, infatti, una forte contestualizzazione. Come ben ci mostra, ad esempio, il caso delle cosiddette altalene rosa, strettamente legate al muro tra USA e Messico.

Uno dei luoghi dove più drammaticamente in questi anni le migrazioni si sono sviluppate è stato certamente il Mediterraneo. Davanti alle sue coste o nelle sue acque molte speranze si sono infrante per la difficoltà dell’attraversamento. Una difficoltà non certo derivante dalla mancanza di mezzi. Ogni giorno aerei e traghetti in gran numero vanno da una parte all’altra. Ma è creata dai governi che non vogliono i migranti e perciò negano loro i visti costringendoli ad affidarsi ai trafficanti con i loro barconi.

Angeli senza saperlo: il dramma della migrazione nell’arte

Rispetto a questo scenario, troviamo opere la cui forza si è legata essenzialmente alla scelta stessa di farle esistere. Emblematico il caso degli Angels Unawares (“Angeli senza saperlo”) di Timothy Schmalz. Un gruppo bronzeo di 140 figure di migranti, a grandezza naturale, di tempi e culture differenti, su un barcone – chiaro riferimento al contesto mediterraneo.

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Al centro, due ali d’angelo. Vorrebbero evocare l’idea che aiutare un migrante sarebbe come aiutare un angelo, secondo l’intenzione dell’artista che ha detto di aver preso le mosse, per la soluzione inconografica, dal passo della Bibbia dove si dice:

Non dimenticate l’ospitalità; perché alcuni praticandola, senza saperlo, hanno ospitato angeli (Lettera agli Ebrei, 13.2)

L’opera è stata inaugurata il 29 settembre 2019, in occasione della 105° Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati. La collocazione, dichiarata provvisoria ma al momento ancora in atto, in Piazza San Pietro.

In questo caso, la scelta, chiaramente del Pontefice, di proporre l’opera e oltretutto nel cuore simbolico della cristianità, ha avuto di per sé un impatto. Più difficile valutare la forza dell’opera in sé, che date le sue caratteristiche dipenderà anche non poco dalla collocazione definitiva (al momento non precisata). Può apparire comunque discutibile la soluzione delle ali: emerge il suo senso con efficacia? E poi, siamo sicuri che una lettura in chiave angelicante dei migranti sia quella più vera e più giusta per i nostri giorni?

La forza della fotografia

Nel 2017 Word Press Photo ha premiato, tra le altre, la foto: Migranti, la trappola in Libia (categoria Problemi contemporanei, 3° premio). In essa vediamo due donne migranti rinchiuse in uno dei terribili centri di detenzione che punteggiano le coste del Paese africano. Piangono e si abbracciano.

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Davanti a una simile immagine però ci chiediamo: al di là dell’intenzione, si tratta di una foto capace di scuotere le coscienze? Questo, ben più di qualsiasi valutazione tecnico-artistica, è il punto. Certamente, hanno scosso le coscienze nel settembre del 2015 le foto di Alan Curdi, il bambino siriano trovato morto su una spiaggia turca dopo l’affondamento del gommone col quale insieme ai suoi familiari stava tendando di raggiungere le coste greche.

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Alan Kurdi giaceva senza vita a faccia in giù, tra la schiuma delle onde, nella sua t-shirt rossa e nei suoi pantaloncini blu scuro. Non ho potuto fare niente per lui, tutto quello che ho potuto fare è stato far sentire il suo grido al mondo intero (Nilufer Demir, la giornalista turca che ha scattato le foto)

Anche per la forza di quelle immagini nell’autunno di quell’anno Angela Merkel ha aperto le porte della Germania ai profughi siriani. Rinunciando così ad applicare le regole internazionali che avrebbero consentito di respingerli verso altri Paesi da cui erano transitati come l’Italia o la Grecia o addirittura la Turchia. Wir schaffen das, ce la possiamo fare, ha potuto ripetere in quei mesi la cancelliera ai cittadini del suo Paese che avevano molte riserve di fronte un’immigrazione massiccia ma avevano anche negli occhi l’immagine di Alan Kurdi.

Qui però siamo per così dire oltre i confini dell’arte. Perché abbiamo semplicemente, dovendo essere chiaro che l’avverbio non toglie valore, una rappresentazione delle realtà che trova la sua forza proprio nel porsi come priva d’interpretazione.

L’antica forza della pittura

L’impatto della foto del bambino siriano morto sulla spiaggia trova in certo modo un precedente in uno dei più famosi dipinti della storia dell’arte: La Zattera della Medusa di Géricault.

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Nella Francia della Restaurazione, su una zattera al largo delle coste africane tutta la miseria, la vigliaccheria, l’abiezione e il coraggio di cui gli uomini sono capaci sembrano concentrarsi. E un giovane pittore, dopo aver incontrato il più generoso dei superstiti, in otto mesi di frenetico lavoro crea un quadro monumentale di sette metri per cinque destinato ad essere una delle opere più sconvolgenti dell’intera storia dell’arte. Metterà in discussione tutte le rassicuranti certezze che i “restauratori” cercavano di diffondere circa l’uomo, la società, le istituzioni.

Contro il linguaggio neoclassico che proponeva un modo ordinato-perfetto, Géricault grida col suo dipinto che non è così dando vita un’opera capace di colpire il cuore e l’intelligenza dei contemporanei e poi degli uomini nel tempo fino ad oggi. Una tragedia del mare diventa attraverso l’arte un drammatico discorso sull’uomo e sulla società.

Il dramma della migrazione nell’arte di Ai Weiwei

Nel 2016, Ai Weiwei, artista contemporaneo piuttosto noto e anche abbastanza quotato sul mercato, per promuovere una sua mostra a Firenze realizza un’installazione sulla facciata di Palazzo Strozzi, Reframe. Ventidue gommoni vengono piazzati attorno ad altrettante finestre del secondo piano dell’edificio come nuove cornici, da qui il titolo dell’opera, per richiamare l’attenzione sul dramma dei migranti che rischiano la vita nel Mediterraneo.

Lo storico dell’arte Tommaso Montanari, interpellato da «Il Fatto uQotidiano», approva.

È un’opera pensata specificamente per Palazzo Strozzi. Trovo interessante l’analogia tra la forma dei gommoni e quella dell’arco acuto che caratterizza le bifore. Un’analogia che rispetta le linee del palazzo e l contempo le altera con un messaggio fortissimo. Noi siamo abituati a pensare alla tragedia dei migranti come qualcosa di lontanissimo dal lusso dell’arte. Ai Weiwei ci ricorda che non è così, ed è particolarmente significativo che lo faccia in una città come Firenze, che si sta trasformando sempre più in una bomboniera per turisti.

Però, al di là dell’intenzione e delle soluzioni formali, se consideriamo che quello che conta non è certo superare un eventuale pregiudizio, probabilmente inesistente, circa la lontananza per sua natura dell’arte da una tragedia come quella dei migranti che cercano di oltrepassare il Mediterraneo, ma di arrivare a dire qualcosa agli uomini di oggi, che cosa ci ha detto Reframe?

Al netto dell’apprezzamento di alcuni addetti ai lavori e dello scontato sarcasmo che ha invaso il web nel 2016 di fronte all’installazione di Palazzo Strozzi, possiamo onestamente pensare che qualcuno abbia visto le proprie certezze o la propria indifferenza messe in discussione dal lavoro di Ai Weiwei?

Il Barcone di Christoph Buchel

Un legame per certi versi più forte con la storia dell’immigrazione regge un’operazione simile-dissimile a quella di Ai Weiwei. L’esposizione alla Biennale d’Arte di Venezia nel 2019 del relitto del natante affondato nel Mediterraneo il 18 aprile del 2015 con centinaia di migranti a bordo, morti quasi tutti annegati, 28 i superstiti.  Tratto dal fondale per recuperare i cadaveri rimasti a bordo, il barcone viene appunto esposto alla Biennale dallo svizzero Christoph Buchel, con funzione artistica.

Suscita però, dopo un po’ di clamore iniziale per la scelta, solo indifferenza. E poi rimane abbandonato sul posto, finché gli organizzatori della Biennale in vista dell’edizione 2021 si rivolgono alla magistratura per chiederne la rimozione. Un amaro finale per un’operazione ambiziosa ma senza impatto. Anche se una sorta di ultima chance è stata offerta al relitto il giugno scorso con la sua ricollocazione ad Augusta in un Giardino della memoria.

Forse, superata una certa fase storica siamo oggi in un tempo nel quale proporre meramente oggetti fuori dal loro contesto di per sé non “provoca” più e nemmeno riesce a comunicare qualcosa.

Di tutt’altro impatto l’installazione permanente di Christian Boltanski per il Museo per la Memoria di Ustica attorno ai resti del DC9 Italia precipitato nel 1980, con le sue luci intermittenti secondo il ritmo del respiro, i suoi 81 specchi neri, le voci sussurrate… Ma si tratta di un dramma differente.

La zattera di Lampedusa

È al largo delle Canarie, ma The raft of Lampedusa di Jason de Caires Taylor già nella denominazione ci parla del Mediterraneo. E in particolare di un luogo simbolo del dramma della migrazione in quelle acque.

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La scultura, parte di un più ampio complesso di opere, rappresenta un gommone con tredici profughi. Per i tratti dei volti l’artista si è ispirato a quelli di migranti realmente sbarcati nelle Canarie.

L’opera richiama chiaramente La Zattera della Medusa. Manca, in effetti, il riferimento a una storia specifica, uno degli elementi di forza del lavoro di Géricault. Non a caso le figure appaiono abbastanza stilizzate (e lo saranno sempre di più con l’agire del tempo, secondo quella che è comunque una precisa intenzione dell’artista, divenendo sempre più parte di un vitale ambiente sottomarino). Ma abbiamo in più la scelta particolare di portare il dramma idealmente nel luogo dove si è consumato e si consuma, ossia nel mare (anche se le acque non sono le stesse). E a quindici metri di profondità, ossia più o meno alla stessa profondità dove nel canale di Sicilia ci sono molti dei resti di infinite tragedie della migrazione.

Se, in qualche caso, le opere poste negli abissi sono il frutto più della volontà di proporre qualcosa di “curioso” che di una necessità artistica, in questo l’essere l’opera nelle acque appare invece un valore. Per il rapporto, evidente, con la realtà dei drammi. E poi anche per un ambiente necessariamente silenzioso e segnato da una speciale fissità e vicinanza-lontananza dell’immagine che rende vigorosamente l’idea del sacrario. Fermo restando che:

La zattera di Lampedusa non va intesa solo come un memoriale ma sta a ricordarci la nostra passività e la nostra collettiva responsabilità proponendo un’immagine disturbante del mondo che noi abbiamo creato (The Guardian, Drowned world: welcome to Europe’s first undersea sculpture museum, 2 febbraio 2016)

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