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Hijab: La modella Halima Aden si ritira dalla moda

Hijab | Model: Na'ela Photo: Sevensigns www.thysevensigns.co… | FlickrIl velo islamico è diventato sempre più una costante per le collezioni di molti stilisti in tutto il mondo. Sembravano delle semplici curiosità, progetti di comunicazione, tentativi di ammiccare a quel mercato prima escluso e privo d’interesse. Si ricordi qualche esempio: la campagna pubblicitaria di H&M dove una ragazza musulmana indossa l’hijab e grandi occhiali neri, quasi a volersi difendere da occhi indiscreti e giudicanti; le sezioni dedicate al Ramadan proposte dal sito e-commerce di lusso Net-A-Porter, riproposta poi dal gigante Uniqlo, che lancia una collezione del tutto inedita, firmata dalla stilista anglo-giapponese e musulmana Hana Tajima.

L’hijab come simbolo

Il velo è un veicolo di messaggi, racchiude dentro di sé simboli e significati. Da molti viene percepito come un oggetto volto ad affermare il potere patriarcale; per molte donne musulmane indossare l’hijab significa seguire e rispettare i principi religiosi e islamici.

Il velo assume un nome diverso in base al contesto e Paese in cui è inserito. La società islamica si basa sul concetto di aperto-chiuso per definire il proprio settore pubblico e privato: queste due sfere identificano la motivazione di queste donne di indossare l’hijab.

Già nel periodo coloniale, intellettuali, viaggiatori ed esponenti politici descrivevano il velo come un capo progettato per privare le donne di qualunque forma di libertà di espressione. Non è un caso che Lady Mary  Wortley, moglie del diplomatico Edward Wortley, dopo aver accompagnato il marito in un viaggio nell’impero Ottomano tra il 1717  e il 1718, scriveva una lettera in cui si opponeva all’idea comune di hijab come forma di oppressione.

L’epoca coloniale è di fondamentale importanza nella storia: vi si è mostrato come nel discorso e nella pratica l’immagine della donna velata abbia avuto un ruolo fondamentale nella giustificazione del colonialismo. Dopo questo periodo, agli inizi del Novecento, è arrivata la fase dello svelamento per molti Paesi arabi: Turchia, Egitto, Algeria. Questa rivoluzione ha portato a diversi dibattiti e discussioni sulla definizione dell’importanza dei veli postcoloniali.

Attualmente, l’hijab ha cambiato il suo significato nel corso del tempo: è riuscito a inserirsi nello spazio  pubblico, non senza difficoltà.

L’hijab e i vari marchi

L’hijab è un concetto chiave della civiltà musulmana, come quello di peccato nella civiltà cristiana o quello di credito nella civiltà dell’America capitalistica. Ridurlo o assimilarlo a uno straccio che gli uomini hanno imposto alle donne per velare quando camminano per strada, vuol dire davvero impoverire questo termine, se non svuotarlo del suo significato.

Molti brand si sono immersi in questa realtà, con non pochi rischi. Tra questi Nike, con il suo Nike Hijab ヒジャブ | Hijab ヒジャブ | Tomoaki INABA | Flickr pro, reso disponibile a livello globale al prezzo di 30 euro circa. Il colosso è uno dei primi marchi a produrre hijab sportivi – prodotti da aziende locali o in Cina – confermando così sia il posizionamento politico, sia l’interesse per questo grande mercato che si sta affermando con maggiore determinazione e carisma.

Hijab Pro è stato realizzato in fibra elastica e traspirante, per far fronte alle esigenze delle atlete grazie alla collaborazione di Amna Al Haddad, campionessa olimpica degli Emirati Arabi, e di altre atlete musulmane, come la pattinatrice Zahra Lari.

Proiettando le nostre memorie nel passato, risulta quasi inverosimile pensare che nel 2004 il velo era vietato dalle Olimpiadi, oppure che la FIFA ha tolto il divieto solo nel 2014.

La moda musulmana è un universo multiforme, ricco di sorprese con mondi, colori, fascinazioni in continuo movimento e tutte da scoprire; eppure, è un mondo che rimane una realtà incompresa. Spesso viene identificata superficialmente all’interno di una categoria, per certi versi costrittiva, come il termine Islamic dress: un abito che nasconde e copre il corpo.

La realtà italiana che si è cimentata verso questo fronte è Dolce & Gabbana con la sua collezione Abaya – primavera estate 2016 – dedicata alle donne musulmane. Sono stati realizzati veli in seta nera e stampe floreali. Non manca il pizzo e quel tocco di italianità, caratterizzato dalla presenza di dettagli come i limoni, che ci rimandano costantemente al sud Italia, un luogo pieno di storie.

Il caso di Halima Aden

Intraprendente, coraggiosa, pragmatica. Halima Aden, classe 1997, è una modella statunitense di origine somala, nota in tutto il mondo per essere stata la prima a indossare il velo islamico al concorso di Miss Minnesota Usa.

Recentemente Aden ha annunciato la sua decisione di lasciare la moda e le sfilate, raccontando il suo percorso e le difficoltà nel rispettare la religione islamica.

Lavorare nell’industria del fashion – nonostante si siano fatti grandi passi in avanti – non è semplice, soprattutto se non si arriva da una cultura occidentale: in termini di inclusività c’è ancora molto lavoro da fare.

Durante il periodo della quarantena, la modella ha avuto la possibilità di riflettere sul suo lavoro. Dopo anni di carriera ha deciso attraverso Instagram di sfogarsi e spiegare il motivo della sua pausa: “La verità è che mi sentivo molto a disagio. Questa non sono io”. Halima ha affermato di aver accettato dei lavori che andavano contro i suoi valori spirituali: “Posso incolpare solo me stessa per essermi preoccupata più delle opportunità rispetto a ciò che era effettivamente in gioco”, spiegando che spesso per lavoro ha rinunciato alla preghiera, o di essersi pentita di aver scelto di utilizzare altri accessori che non fossero l’hijab per coprire il capo.

Ha raccontato che spesso, dopo uno shooting, si chiudeva in camera d’albergo a piangere per ore a causa dei sensi di colpa per non aver discusso con i designer in merito alle priorità legate alla sua religione.

Un altro importante fattore da non sottovalutare è la mancanza di stiliste musulmane, che possano comprendere in modo totale cosa implichi dover indossare l’hijab in determinate contesti.

La decisione di Halima è moto importante non solo per la questione culturale e religiosa, ma anche per il forte messaggio di empowering: essere fedeli a se stesse, nonostante i compromessi, il lavoro, l’ambiente, la cultura entro cui facciamo parte.

Portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna, oggi come oggi un atto ribelle e femminista.


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