Il lavoro è un diritto, ma non se sei transgender

Nell’ultimo articolo del tema del mese di giugno abbiamo parlato dei costi della transizione. Oggi, invece, toccheremo un’altra tematica importante: la situazione delle persone transgender nel mondo del lavoro in Italia. Il lavoro è parte integrante della vita sociale e, nella maggior parte dei casi, costituisce la principale fonte di reddito di una persona. Il diritto al lavoro è uno degli elementi fondanti della Costituzione italiana, come si evince chiaramente dall’articolo 4:

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Eppure, non tutti, in Italia come all’estero, possono sempre godere di questo diritto, il che comporta anche una mancanza di rispetto del principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, altro caposaldo della nostra Costituzione. Oggi parleremo di una categoria particolare di individui che spesso faticano a vivere con serenità nel mondo del lavoro: sono le persone transgender, di cui si è parlato nel precedente articolo del tema del mese a proposito dei costi della transizione.

Dove sono le statistiche sulle persone transgender nel mondo del lavoro?

Partiamo dalle basi. Per fare una buona analisi di un fenomeno di qualunque genere, riguardante il mondo lavorativo, servirebbero delle buone statistiche. Nel nostro caso, sarebbe utile sapere con esattezza quante persone transgender figurino attualmente come disoccupate, o quante abbiano subìto discriminazioni sul posto di lavoro. Tuttavia, analisi del genere sul territorio italiano sono scarse, incomplete e poco recenti.

Per questo motivo, iniziamo con una constatazione: sarebbero necessarie più indagini che forniscano dati attendibili per poter parlare della questione in maniera esauriente. Si tratta, evidentemente, di un ostacolo di cui tenere conto, perché questo vuoto è sintomo di un problema, ancora non percepito come tale. Con le dovute eccezioni.

Io sono, io lavoro è stata la prima indagine a livello nazionale che ha affrontato, in Italia, la tematica della situazione delle persone LGBT sul luogo di lavoro e che ha analizzato le discriminazioni da loro subìte in maniera minuziosa e approfondita. L’indagine si è svolta nel 2011 ed è stata finanziata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e promossa da Arcigay Nazionale.

Un’altra importante ricerca svoltasi nello stesso periodo (tra settembre 2011 e luglio 2012) è stata condotta dall’Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford; questa mirava a censire e analizzare le buone prassi realizzate a livello internazionale per il superamento delle discriminazioni nei confronti delle persone LGBT in ambito lavorativo. La ricerca è stata finanziata dal Fondo Sociale Europeo. La collaborazione con le istituzioni, come anche con le organizzazioni sindacali e il terzo settore, svolge un ruolo importante perché permette di dare maggiore legittimità alle ricerche condotte.

L’incubo del colloquio di lavoro

Il momento del colloquio di lavoro genera per chiunque tensione e agitazione: sarò abbastanza preparato?  Ho messo forse troppo profumo? Come ho potuto non notare che da questo lato la camicia è spiegazzata? Se anche voi alla vigilia di un colloquio vi siete posti domande del genere, benvenuti, siete in buona compagnia. Ora, però, individuate qualsiasi timore che abbiate mai avuto la sera prima di un colloquio di lavoro e moltiplicatelo.

In questo modo, potrete farvi un’idea del livello di ansia che prova una persona transgender di fronte a un colloquio lavorativo. Perché questa persona sa bene che non verrà giudicata solamente sulla base delle sue competenze e sulla sua professionalità. Anzi, può anche darsi che questi aspetti vengano totalmente messi da parte, e il colloquio si trasformi in uno pseudo interrogatorio sulle motivazioni della transizione e curiosità annesse. Seguito da un “Le faremo sapere” che spesso si conclude con un nulla di fatto.

La candidatura viene frequentemente respinta per ragioni che non hanno niente a che fare con la preparazione del candidato, ma sono legate prevalentemente a un diffuso pregiudizio nei confronti delle persone transgender. Al colloquio è necessario mostrare i propri documenti: quando il genere riportato su di essi non sembra coincidere con quello della persona che si ha di fronte (ricordiamo che in Italia possono volerci anni per ottenere una modificazione dei documenti), un velato imbarazzo da parte di chi conduce il colloquio può alternarsi a episodi di vera e propria discriminazione.

Talvolta i documenti vengono chiesti solo dopo lo svolgimento del colloquio, fatto che di solito tutela maggiormente le persone transgender da eventuali discriminazioni. Alcune persone transgender riportano però esperienze decisamente negative, come nel caso di aziende che scoprono questa caratteristica del candidato solo dopo avergli garantito l’assunzione, e decidono per questo di tirarsi indietro e non assumerlo più (azione, peraltro, passabile di denuncia).

Transizione a lavoro già avvenuto: problematicità e vantaggi

Tuttavia, accade che alcune persone comprendano e accettino la propria disforia di genere solo in età adulta, quando hanno già da tempo un lavoro stabile. Nel caso in cui decidano di intraprendere il percorso di transizione, però, possono tramutarsi in oggetto di derisione da parte di colleghi e superiori. Si trovano così a lavorare quotidianamente in un ambiente tossico. La situazione può diventare talmente insopportabile da costringere le vittime a lasciare il lavoro.

Tendenzialmente, coloro che prima di intraprendere la transizione rivestivano un ruolo di notevole importanza nella loro azienda, o che svolgevano una mansione molto specifica (e quindi più difficilmente sostituibile), sono meno discriminati di chi si trova alla base della gerarchia lavorativa. Questi ultimi, invece, spesso perdono il lavoro con estrema facilità.

Questo porta poi le persone transessuali a fare lavori in nero, i quali sono spesso legati al mondo della prostituzione, che rimane per molti l’unico lavoro possibile, l’unico modo per mantenersi ed evitare di vivere per la strada. Ovviamente, le circostanze variano da caso a caso, ma sono ancora (troppo) numerose le testimonianze di persone transgender che lavorano nella prostituzione più per mancanza di alternative che per reale desiderio. Tutto ciò contribuisce inoltre a rafforzare i pregiudizi nei confronti delle persone transgender.

La storia di Stefania Pecchini

Fortunatamente, non sempre va così. Ci sono infatti anche casi più fortunati, come quello di Stefania Pecchini, la prima (e per ora unica) transessuale italiana a far parte del corpo di polizia. Stefania, che prima si chiamava Fabio, non ha accettato subito la propria disforia di genere, anche perché vincolata dalla tipica associazione tra transessualità e prostituzione. Quando, dopo un matrimonio e due figli, lo psichiatra che la seguiva da due anni le ha parlato di “transessualismo primario” (l’attuale disforia di genere), la sua reazione è stata piuttosto negativa. Come afferma oggi, il primo pregiudizio con cui ho dovuto combattere è stato il mio”.

Dopo essersi accettata, Stefania ha voluto intraprendere il percorso di transizione. Da sempre autoironica, non ha voluto nascondere nulla ai suoi colleghi, che fortunatamente hanno accolto il suo cambiamento fornendole sempre supporto e comprensione. Le difficoltà principali che ha dovuto affrontare sono state prevalentemente di tipo burocratico, come quando aveva già effettuato l’operazione ma non aveva ancora i documenti che la classificavano come donna.

Un altro problema che Stefania è riuscita a evitare è legato al fatto che la disforia di genere è ancora considerata una patologia psichiatrica. Ciò consente da un lato di accedere alle cure medico chirurgiche e di essere seguiti a carico del servizio sanitario nazionale, dall’altro impedisce però l’utilizzo delle armi, e di conseguenza l’appartenenza a un corpo militare. Lo psichiatra che seguiva Stefania ha certificato che si trattava di una persona sana di mente, per poterle permettere di continuare a svolgere la sua professione.

Oggi Stefania Pecchini è sovrintendente della Polizia locale di San Donato Milanese e ha raccontato più volte la sua vicenda, rilasciando diverse interviste. Il suo cammino non è stato sempre facile, tanto che, nonostante la disponibilità dei colleghi e l’affetto della famiglia, ha provato ad avere anche pensieri suicidi. La poliziotta afferma che pensare ai suoi figli l’ha convinta ad andare avanti, anche per dimostrare loro che la vita vale e che le difficoltà possono essere superate.

Clima di lavoro e doppia vita

Purtroppo, casi come quello di Stefania sono ancora una rarità. In Italia, le persone transgender affrontano spesso discriminazioni in varie situazioni, ma quando si parla del mondo del lavoro queste sono ancora più gravi, perché colpiscono un aspetto della loro vita quotidiana, nonché una fonte di reddito fondamentale. Soprattutto nelle aziende medio piccole italiane, gli atti di discriminazione provengono in molti casi dallo stesso datore di lavoro. Le persone transessuali sono così oggetto di una maggiore attenzione, per cui al primo errore rischiano di essere cacciate.

Il costante terrore del licenziamento, ovviamente, non favorisce affatto la creazione di un clima lavorativo sano e arricchente. Per evitare tutto ciò, molti decidono di condurre una sorta di “doppia vita”, cioè di vivere secondo le abitudini del sesso di appartenenza nel contesto lavorativo, e di essere davvero se stessi per il resto del tempo. Una simile scelta rende però la vita piuttosto complessa, se non altro per il perenne timore di essere “scoperti” al di fuori dall’orario di lavoro da qualche collega incontrato per caso.

È evidente che, benché esistano alcune forme di tutela nei confronti delle persone transgender, queste sono ancora insufficienti per garantire loro una vita dignitosa nel contesto lavorativo. Nel prossimo articolo proseguiremo con il nostro percorso del tema del mese di giugno, cioè “Identità di genere”, parlando di transessualità nel mondo del fumetto.

 

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