“Blow-up”: l’inconsueta riflessione di Antonioni sulla complessità del reale

Vi è mai capitato di credere reale una cosa che avete soltanto immaginato? O magari di sognare di ritrovarvi in situazioni plausibili ma che non possono accadere davvero? Pensare ancora di aver visto qualcosa che concretamente non c’è mai stato? O forse sì? Ebbene, su certi interrogativi Michelangelo Antonioni realizza Blow-up, la pellicola, a metà fra reale e fantastico, apparsa sul grande schermo nel 1967.

Un film dissacrante per i sostenitori di una concezione univoca del mondo; un mantra, invece, per i sognatori impavidi, non sempre certi di trovare l’Eden al di là della verità più tangibile.

L’idea di Antonioni

Reduce, nei primi anni Sessanta, dalla cosiddetta “Tetralogia esistenziale”, il regista ferrarese inizia una fase di produzione principalmente all’estero, collaborando con attori stranieri. Infatti, dopo aver girato – tra il ’60 e il ’64 – L’avventura, La notte, L’eclisse e Deserto Rosso, capolavori indiscussi della nostra cinematografia, Antonioni intraprende una nuova esperienza registica creando film in lingua inglese.

Il primo risultato di questo singolare momento, Blow-Up appunto, è un vero successo. L’idea nasce quando il regista si imbatte nella lettura de Le bave del diavolo, un racconto dello scrittore argentino Julio Cortázar. Nella sua mente, la vicenda narrativa, seppur interessante, lascia maggior spazio al particolare uso della fotografia e dei suoi significati all’interno del plot.

Antonioni rimane affascinato da come, attraverso una macchinetta fotografica, si possa creare a tutti gli effetti un’altra realtà, simile ma non esattamente identica a quella in cui si muovono gli occhi di chi scatta l’istantanea. Così, con l’aiuto del poeta e scrittore Tonino Guerra, elabora, riscrivendola da zero, la sceneggiatura per Blow-Up, costruita sugli intrinsechi meccanismi che sottostanno all’arte fotografica.

Una trama avviluppata

Seguendo determinati elementi, il regista modella l’intero film attorno alla figura di un unico personaggio principale, Thomas. Questi, interpretato da un giovane David Hemmings, al suo debutto, è un fotografo di moda londinese, impegnato in un progetto diverso nell’ultimo periodo. Deve infatti realizzare un libro di ritratti dei soggetti più poveri della capitale britannica.

Tuttavia, il lavoro procede a fatica e in uno dei tanti pomeriggi trascorsi a mani vuote, Thomas si imbatte, con la sua immancabile Reflex, in una coppia di amanti in un parco della zona. La luce è buona e i soggetti sono a favore di inquadratura: non gli resta che immortalarli. Arrivato a casa, sviluppa il rullino e, attraverso quel tipico movimento di ingrandimento dell’immagine, – che porta il nome di blow-up – nota di aver fotografato un assassinio.

Realtà o finzione?

Tornato sul presunto luogo del delitto, Thomas non trova alcun cadavere. Ogni traccia, che era sicuro di aver visto sulle foto da lui sviluppate, si rivela infondata. I dubbi lo assalgono e la confusione prende il sopravvento. Ha davvero visto un cadavere? Oppure ha solo immaginato di vederlo? I suoi occhi lo hanno tradito? Impossibile dare una risposta a tutte le domande che si affastellano nella mente del giovane.

In fondo, lo stesso Antonioni compone  l’intera pellicola giocando sulla quantità e sulla varietà di livelli che la realtà può assumere. Non c’è niente di concreto che avvalori la visione di Thomas e, allo stesso tempo, non c’è nulla che ci dica il contrario. Ogni mente così come ogni luogo sembra possedere una propria verità che è giusta e perentoria nel livello di realtà in cui si diffonde.

Non finire è la vera fine

Il finale del film, come qualsivoglia capolavoro che si rispetti, non è un finale vero e proprio. Al contrario, è una scena estremamente aperta e di sicuro interpretabile da molteplici prospettive. Thomas, ancora confuso dai dubbi che stentano ad attenuarsi, si trova coinvolto in una partita di tennis giocata da due mimi.

Indiscussa protagonista è l’immaginazione: non c’è nulla di concreto o di materiale, niente racchette né tantomeno palline. Eppure la partita va avanti come se fosse reale.

Ad un tratto, però, la pallina finisce fuori campo, in prossimità di Thomas. A lui quindi spetta “raccoglierla” e di conseguenza oltrepassare quella linea invisibile tra la sua realtà e quella immaginata dai mimi. Il fotografo allora, presa la fantomatica palla, la lancia di nuovo verso il campo. L’inquadratura si allontana, ma contemporaneamente iniziano a sentirsi i rumori e i colpi prodotti da una vera partita di tennis.

Tutto è demistificazione?

Come a voler tenere alto il nome che Antonioni porta, lo stesso  del maestro rinascimentale del non-finito, l’ultima scena di Blow-Up è un concentrato di riflessioni che rimangono sospese. Un misto di emozioni dal sapore contrastante sia per gli spettatori sia per il nostro protagonista, che si accavallano l’una sull’altra creando tutto intorno una nebbia difficile da attraversare.

Il colpo di genio del regista sta proprio nell’aver saputo magistralmente porre su di uno schermo la rappresentazione più fulgida degli infiniti aspetti che può assumere la realtà, demistificandola in un certo senso. Combattere il credo secondo cui la realtà sia univoca, è al centro di tutta la pellicola.

La verità delle cose non è mai una e una sola, a differenza di ciò che i postulati matematici e scientifici ci vogliono da sempre fa credere. È la stessa realtà alla quale prendiamo parte a contraddire tutto ciò, e questo Antonioni ce lo insegna molto bene.

Un film fuori dal tempo

Le aporie della vita analizzate da Blow-Up rendono la pellicola fortemente attuale. Certo, alla fine degli anni Sessanta, temi come l’esistenzialismo, la riflessione sull’individualità e il suo rapporto con il mondo esterno, erano molto in voga e Antonioni, vista anche la sua precedente esperienza registica, dirige un film che ripercorre senza dubbio questioni contemporanee.

Ma è anche vero che la carica magnetica dell’intero lungometraggio riesce ancora ad attrarci, dopo quasi sessant’anni. Ogni scelta operata da Michelangelo Antonioni fa in modo che il film si ponga al di là di una sua periodizzazione, come la fotografia eccellente di Carlo Di Palma, la sceneggiatura, le musiche di Herbie Hancock.

Insomma, tutto questo contribuisce a lasciarci l’eredità di una vera e propria opera d’arte del secondo Novecento. Un tentativo di esplorare la realtà in tutta la sua complessità e in tutti i suoi spazi, soprattutto in quelli più reconditi, perché se c’è una cosa che da allora non è mai cambiata è proprio il garbuglio dell’esistere.


 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.