Perché Dante Alighieri è considerato il “padre della lingua italiana”?

Dante Alighieri, colonna portante della cultura italiana, è da molti definito il “padre dell’italiano”. Non solo: fatta eccezione per i “Padri della Chiesa”, egli è l’unico personaggio storico-letterario italiano a cui sia mai stato attribuito il titolo di “padre”. Nemmeno personalità storiche dal calibro di Giuseppe Garibaldi o geni indiscussi come Leonardo da Vinci sono stati singolarmente appellati come tali. Dante invece sì. Ma che cosa significa esattamente essere “padre” di una lingua? E soprattutto: Dante merita davvero questo epiteto?

L’Alighieri è stato indubbiamente il più incisivo tra gli scrittori che hanno segnato la storia della letteratura italiana. In un’epoca in cui il latino era considerato la lingua dell’élite intellettuale, l’idioma che ogni uomo istruito che volesse abbracciare il mondo delle lettere era tenuto a conoscere approfonditamente, Dante sa osare: accanto a testi redatti in latino (come il celebre De Vulgari Eloquentia) egli affianca opere in volgare fiorentino. Profondamente legato alla sua lingua madre, Dante conosce il latino, ma non accetta l’idea diffusa fra gli intellettuali che esso sia necessariamente di “qualità più pregiata” rispetto al volgare. Egli, piuttosto, rivendica la funzione educativa del volgare, un’ancora per tutti coloro che il latino, tra Duecento e Trecento, non lo conoscono, ma che bramano comunque di “seguir virtute e canoscenza”. L’amore per l’idioma della sua città, inoltre, emerge chiaramente nel Convivio, nel quale Dante elenca le ragioni per cui il volgare si è rivelato fondamentale per la sua formazione e per quella di tutti coloro che lo utilizzeranno dopo di lui, concludendo che

non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch’io a lui debbo avere e ho. […] Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.

(Convivio, Trattato I, capitolo XIII, 10-12)

Dante, dunque, ancora una volta si è rivelato profetico: al giorno d’oggi la lingua utilizzata in Italia nel parlato e nello scritto è proprio l’italiano, non il latino.

Ma che cosa ha fatto, concretamente, per meritare l’epiteto di “padre”? È stato forse il primo ad utilizzare il volgare in letteratura? Assolutamente no. Sono molti gli intellettuali che prima di lui si sono cimentati nella poesia volgare. Uno tra gli esempi più lampanti è quello della Scuola Siciliana, originatasi alla corte di Federico II di Svevia. La produzione letteraria siciliana, che costituisce il primo vero movimento letterario italiano, ha poi influenzato altri poeti toscani, che hanno utilizzato il fiorentino ancora prima di Dante. Ma se egli non è stato né il primo a scrivere in una lingua diversa dal latino, né tantomeno il primo ad utilizzare il volgare fiorentino, allora perché mai dovremmo considerarlo il “padre dell’italiano”?

Per rispondere a questa domanda, è necessario spostare il focus della nostra analisi. Non dobbiamo soffermarci sul “quando” Dante ha cominciato ad utilizzare il volgare, ma piuttosto sul “come” lo ha fatto. È evidente che la portata e la profondità della sua produzione non possano essere paragonate a quella di nessun altro intellettuale della storia. Prendiamo, per esempio, l’opera che più di tutti lo ha reso celebre: la Commedia (divenuta “Divina” con Boccaccio). Questo vastissimo poema in terzine incatenate di endecasillabi è una vera e propria enciclopedia della conoscenza medievale. Dante, negli oltre quattordicimila versi di cui è composta, tocca tematiche politiche, storiche, scientifiche, religiose e sociali, con una spiccatissima abilità orientativa. Per destreggiarsi all’interno di ambiti così disparati, essenziale è la capacità di modellare la lingua in base alle proprie esigenze, padroneggiando l’immenso spettro di stili e registri che essa mette a disposizione. È naturale che non sia possibile descrivere creature mostruose come Lucifero utilizzando lo stesso registro con il quale si discute di amore o ci si appresta alla visione della Trinità: e Dante, su questo fronte, non delude mai.

La lingua aspra, dolorosa e talvolta rozza o comica dell’Inferno convive, all’interno della medesima opera, con la solennità lessicale e stilistica del Paradiso. Per realizzare ciò, Dante spreme il volgare fiorentino come un agrume, ne sfrutta tutte le potenzialità espressive, vi estrae fino all’ultima goccia di succo. Utilizza vocaboli di uso comune, ma anche parole già desuete ai suoi stessi contemporanei; attinge più volte al bagaglio lessicale di lingue straniere (in particolare del francese) e di altri dialetti italiani. Ancora, dissemina la Commedia di latinismi (parole o sintagmi di derivazione latina) e di neologismi (vocaboli “nuovi” introdotti dal poeta stesso, che per questo vengono chiamati anche “dantismi”). Dante, inoltre, è capace di rendere proprio il lessico dei più disparati ambiti della scienza, come quello medico, astronomico o musicale. Non dimentichiamoci, poi, delle numerose frasi idiomatiche che noi, uomini del XXI secolo, continuiamo a utilizzare ancora oggi, e che portano la firma proprio di Dante Alighieri (celebre è, ad esempio, l’espressione “senza infamia e senza lode”, filtrata da Inferno, canto III). A tal proposito, significativo è lo studio condotto dal linguista Tullio de Mauro: in La “Commedia” e il vocabolario di base dell’italiano emerge che l’80% del nostro vocabolario fondamentale, cioè l’insieme delle parole utilizzate più frequentemente nella comunicazione quotidiana, è già presente nella Commedia di Dante.

Se, dunque, la lingua utilizzata al giorno d’oggi si basa in gran parte sul fiorentino del Trecento, il merito è da attribuire principalmente a Dante Alighieri (ma anche a Petrarca e Boccaccio). Prima delle “Tre Corone”, infatti, il volgare fiorentino era un semplice idioma tra i tanti presenti in Italia; dopo il loro immenso lascito, esso si è trasformato invece nella lingua italiana per eccellenza. Alla luce di queste considerazioni, Dante merita davvero l’epiteto di “padre dell’italiano”? Ciascuno di noi è libero di formulare la propria personale opinione in merito. Ciò che è certo, però, è che a distanza di settecento anni dalla sua morte gli uomini contemporanei utilizzano ancora espressioni e vocaboli che lui ha reso immortali. Qualcosa di sicuro vorrà dire.


FONTI

Dante Alighieri, Convivio, Bur Rizzoli, 2018.

Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di S. Jacomuzzi e A. Dughera, SEI, 2008.

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