Progetto Arca: una fondazione per aiutare le persone senza casa

Il 2020 è stato un anno duro per tutti noi, costretti a vivere per mesi chiusi in casa, un luogo che per molti si è trasformato in una prigione, e che tuttavia ci ha permesso di proteggerci dal virus, il quale circola ancora oggi nelle nostre città. Ma che cosa ha fatto chi una casa non ce l’ha? Le persone senzatetto, infatti, sono una delle categorie maggiormente colpite dal virus. Da sempre la Fondazione Progetto Arca Onlus si occupa di tutelare i senza fissa dimora. Abbiamo avuto la possibilità di porre alcune domande a Simone Trabuio, referente dell’area volontariato del Progetto Arca Onlus.

Ciao Simone! Iniziamo con una domanda introduttiva. In che cosa consiste il Progetto Arca Onlus?

Il Progetto Arca Onlus è una fondazione che da ventisette anni si occupa di aiutare persone in difficoltà progettando percorsi e attivando servizi su vari livelli, in base alle loro problematiche. Il nostro obiettivo è permettere a queste persone di risollevarsi o quantomeno di migliorare la propria condizione di vita.

Com’è nato?

Il Progetto Arca nasce nel 1994 da un’idea di Alberto Sinigallia, che già in precedenza era stato volontario nella comunità di Fratel Ettore, un personaggio importantissimo per la rete di solidarietà della città di Milano. Sinigallia, oltre che fondatore, è anche l’attuale presidente dell’associazione. Il Progetto Arca Onlus cresce moltissimo negli anni, arricchendo notevolmente i servizi offerti e trasformandosi in una Fondazione nel 2008. Ha avuto un ruolo chiave nella gestione di diverse emergenze in Italia e talvolta anche in altri Paesi.

Come mai si chiama “Progetto Arca”?

Il nome della fondazione riprende da un lato il termine “arca”, nome evocativo che richiama ai concetti di salvezza e di rinascita; dall’altro c’è però la parola “progetto”, inteso come un aspetto concreto, un percorso da costruire insieme, noi e le persone che aiutiamo, per tracciare con loro una nuova partenza.

Quale ruolo hai all’interno della fondazione? E da quanto tempo collabori con il Progetto Arca?

All’interno della fondazione, insieme alla responsabile dell’area volontariato, mi occupo di coordinare le attività dei volontari, in primo luogo la pianificazione e la gestione dei turni. Faccio in modo che quando arriva un volontario, abbia a disposizione tutti gli strumenti di cui ha bisogno; talvolta accompagno i volontari nelle loro attività, quando per esempio si tratta di un servizio più delicato ed è necessaria la presenza di un operatore. Oltre a ciò, mi occupo di seguire il “percorso di vita” del volontario, dal momento del suo primo contatto con la Fondazione fino alla sua formazione e al coinvolgimento nel Progetto Arca. Svolgo poi altre attività di organizzazione e programmazione “dietro le quinte”.

Questo lavoro mi permette sia di sviluppare competenze organizzative importanti, sia di mantenere il rapporto umano con le persone che aiutiamo e con i volontari. Questo aspetto è ciò che mi ha attratto di più in questo lavoro, e si tratta, a mio parere, del lato più bello. Il calore umano che si incontra in questo lavoro è ciò che, alla fine, ti dà più soddisfazione.

Lavoro per la Fondazione da gennaio 2020, sono entrato come stagista, mentre attualmente ho sviluppato un rapporto lavorativo più duraturo. Ho iniziato a collaborare con il Progetto Arca in un anno particolarmente tosto, ho fatto giusto in tempo ad ambientarmi e poi è cambiato tutto. Soprattutto nella prima fase dell’emergenza, il mio lavoro si è riadattato in molti modi.

In quali città operate?

La città principale è Milano, che costituisce il focus delle nostre attività ed è il luogo dove si trovano la sede organizzativa e gli uffici. Roma e Napoli sono le altre due città più importanti dove operiamo; ma siamo presenti in quasi tutte le regioni italiane, anche se in modi diversi (ad esempio, tramite accordi con altre associazioni). Le collaborazioni sono aumentate con le nuove emergenze emerse a causa della pandemia, e attualmente garantiamo la nostra assistenza in numerosi progetti.

Dal vostro sito, emerge il fatto che dal 2012 collaborate con il “Piano Freddo”, promosso dal Comune di Milano: in che cosa consiste?

Faccio prima una piccola premessa. La Fondazione si occupa di assistere persone su quattro direttive principali: coloro che vivono in strada, coloro che hanno una difficoltà abitativa, chi cerca un futuro in Italia – cioè i richiedenti asilo (la fondazione ha rivestito un ruolo importante nella gestione dell’emergenza dei profughi siriani) – infine le persone tossicodipendenti. Il Progetto è nato proprio per aiutare queste ultime, ma in ventisette anni è cresciuto ed è mutato. Tendenzialmente il nostro modo di lavorare è in evoluzione sulla base dell’emergenza sociale del momento. Nel periodo 2015-2018, come accennavo prima, il Progetto Arca ha collaborato attivamente nella gestione degli sbarchi di profughi. Ora, con la pandemia, stanno emergendo nuove difficoltà sociali che stiamo cercando di affrontare adeguatamente.

Collaboriamo attivamente con il comune di Milano, che rappresenta una realtà modello in Italia per il forte coordinamento esistente tra le varie reti d’aiuto. Tale organizzazione dimostra la propria efficacia proprio tramite il “Piano Freddo”, che mette in accordo tutti i vari enti, di volontariato e non, che si occupano di assistenza sociale. In questo modo, i diversi aiuti vengono coordinati per far fronte alle difficoltà che insorgono nel periodo più freddo dell’anno, generalmente tra ottobre e fine febbraio.

Il nostro sostegno si sviluppa anche tramite la disponibilità di posti letto in dormitori a Milano, alcuni dei quali sono attrezzati per una degenza su un lungo periodo, altri sono pensati per una permanenza più breve. Il “Piccolo Rifugio” è uno di questi: si tratta di una residenza, in via Aldini, prevista per le emergenze e pertanto attrezzata per una degenza breve, come nel caso in cui qualcuno, all’improvviso, non abbia un letto dove dormire la notte. Successivamente, nel caso l’emergenza non si fosse risolta, indirizziamo gli ospiti del Piccolo Rifugio verso canali di assistenza più strutturati. Quest’anno il Piano Freddo, a causa della pandemia, è stato particolarmente importante, e abbiamo cercato di potenziare il più possibile le nostre Unità di Strada.

Di che cosa si tratta?

Le Unità di Strada sono le attività principali che vedono coinvolti i volontari, i quali sei volte alla settimana, dal lunedì al venerdì, escono ad aiutare le persone senzatetto in diverse aree del comune di Milano. Diverse associazioni si occupano delle Unità di Strada, perciò è stato creato un coordinamento per coprire aree differenti. Coordinarsi è fondamentale per l’efficacia di questo servizio, perché il rischio era che più associazioni uscissero la sera e si ritrovassero a fare la stessa cosa nello stesso punto. Solo dividendosi le zone si riesce a essere davvero utili.

Le Unità di Strada offrono un aiuto molto concreto, che consiste nel portare qualcosa da mangiare, o una coperta per combattere il freddo. Tuttavia, significa anche portare un saluto, del calore umano; alcune persone alla fine ti conoscono e si aspettano che arrivi, si creano con loro dei rapporti stabili e duraturi. Questo significa creare un legame con una persona, utile per cercare in seguito di rindirizzarla verso un percorso di recupero e di miglioramento della propria vita. Non sempre ci si riesce, ma quando accade è una grande soddisfazione.

Durante la pandemia com’è stata gestita la situazione? Che cosa è cambiato?

Per noi è stato un brutto colpo, ma anche, in un certo senso, una sfida. Come ha detto il Presidente durante una riunione, durante questa pandemia siamo una nave solida nella tempesta. Arca infatti ha saputo reagire di fronte alle nuove sfide che la pandemia ci ha presentato, ma oggi siamo ancora nel mezzo dell’emergenza. La struttura della fondazione si è dimostrata solida, composta da persone che, dopo un periodo iniziale di riorganizzazione, hanno saputo dare prontamente risposta alle nuove emergenze.

Io stesso fino ad allora seguivo le normali attività dei volontari e ho dovuto cambiare un po’ quello che facevo, sia come lavoro, sia per quanto riguarda la mia presenza nelle attività, perché a marzo abbiamo dato il via a un progetto di assistenza a domicilio, a causa delle restrizioni. Non potendo più muoversi di casa, per molti era infatti più difficile accedere ai servizi; inoltre tante persone che prima svolgevano lavori occasionali non avevano più quel minimo di entrate che in precedenza riuscivano a procurarsi. Di conseguenza, hanno dovuto affrontare difficoltà molto pesanti.

Simone Trabuio
Simone Trabuio

In quel periodo tante persone ci hanno contattato e per questo abbiamo pensato di ampliare il progetto a domicilio, che prima già esisteva in minima parte. Ogni pomeriggio i volontari partivano da un centro in via Sammartini, che noi chiamiamo Casa del Volontariato, diventato in quel periodo più che mai il punto nevralgico delle nostre attività. Nel pomeriggio vari volontari prendevano un elenco di indirizzi, una ventina di pacchi di viveri a testa e cominciavano a distribuire questi ultimi a Milano e nell’hinterland.

Per molte famiglie è stato un servizio davvero fondamentale, perché ha contribuito ad alleviare le difficoltà che la pandemia ha fatto emergere (ma che esistevano già in precedenza). Ora siamo in contatto con circa 3.000 famiglie al mese, e garantiamo anche un servizio di sostegno all’infanzia.

Il progetto di assistenza a domicilio è proseguito fino a maggio e giugno. Sono stati mesi tosti, ma anche strani, perché ci muovevamo in una città sospesa, di cristallo. Milano era senza traffico, non c’era nessuno per le strade, regnava un’atmosfera davvero surreale, era strano impiegare così poco tempo ad attraversare la città, totalmente deserta. Ho passato lunghi pomeriggi a coordinare i gruppi di volontari in via Sammartini, e sono stati mesi davvero intensi.

E per quanto riguarda le Unità di Strada?

Nel corso di questa prima fase, anche le Unità di Strada si sono riformate. Allo scoppio dell’epidemia, abbiamo messo subito in sicurezza i volontari, riducendo il numero di persone presenti in ciascun servizio, che nelle Unità di Strada nello specifico erano ridotte a tre, compreso il referente. Inoltre, prima portavamo soltanto un panino oppure un bicchiere con una bevanda calda, perché le persone senzatetto a Milano spesso sanno dove trovare qualcosa da mangiare e non aspettano sempre noi, sanno dove si trovano le mense o hanno altre reti di protezione (ad esempio, conoscono il barista che alla chiusura gli regala qualcosa).

A marzo, tutto ciò è improvvisamente venuto a mancare, le persone che vivono per strada si sono ritrovate senza niente. Le prime settimane dovevamo anche spiegare loro che cosa stava succedendo, perché molti non vedevano più gente per strada ma non sapevano il perché. Abbiamo distribuito gel disinfettante, mascherine monouso e guanti, per un totale di 50.000 presidi sanitari acquistati dalla Fondazione tra Milano, Roma e Napoli. Questi sono stati in parte utilizzati all’interno delle strutture di accoglienza per renderle dei luoghi davvero sicuri; in parte distribuiti tramite le Unità di Strada. Infine, Arca è dotata di personale infermieristico che si è occupato di verificare lo stato di salute delle persone senza fissa dimora. Abbiamo anche provveduto a garantire, laddove è stato possibile, un percorso di tracciamento del virus tramite tamponi, sia per gli ospiti delle nostre strutture di accoglienza, sia per i volontari, così da tutelare tutti.

Il numero di derrate alimentari che abbiamo distribuito nella primavera 2020 è notevolmente aumentato, anche perché altre associazioni di volontariato non avevano trovato le mascherine neppure per gli stessi volontari, che quindi non potevano operare in strada. D’estate la situazione è migliorata.

Come cambia il vostro servizio tra estate e inverno?

Cerchiamo sempre di dare una continuità ai nostri servizi, in tutte le stagioni. L’inverno è caratterizzato dal “Piano Freddo”, mentre d’estate tendiamo a focalizzarci sulle singole emergenze, più localizzate. Nelle giornate molto calde, provvediamo alla distribuzione di acqua fresca.

Che cosa è cambiato durante la pandemia, per quanto riguarda le mense e le strutture di accoglienza?

Durante la pandemia chi stava nei dormitori tendenzialmente vi è rimasto, e abbiamo riorganizzato i centri per garantire il distanziamento. Non sempre era facile far capire l’importanza delle misure di sanificazione e distanziamento. Infatti, entriamo in contatto con persone di diverso livello sociale e diversa estrazione culturale, pertanto alcuni di loro non comprendevano la necessità di tali provvedimenti. Tuttavia, con il tempo si è capito che era importante fare squadra ed era necessario “aiutarci ad aiutarli”.

Le mense, invece, inizialmente hanno dovuto chiudere. Alcuni servizi di assistenza si sono attrezzati diversamente, per esempio distribuendo viveri in altri modi, oppure hanno riaperto con l’estate. Poiché le persone non potevano più accedere come prima alle mense, noi abbiamo pensato di andare da loro. Nella seconda fase dell’emergenza sanitaria, il Presidente ha avuto l’idea di realizzare una Cucina mobile: grazie ai nostri numerosi sostenitori, abbiamo acquistato un furgoncino che utilizziamo per distribuire ogni sera pasti caldi ai senza fissa dimora. Vengono distribuite porzioni monodose, ritirate in precedenza dai volontari nella nostra centrale operativa.

Poter mangiare un pasto caldo, cucinato con ingredienti di qualità, è ben diverso dal ricevere un panino. Per molte persone è davvero importante, perché si tratta del primo e unico pasto caldo della giornata, se non addirittura l’unico pasto in totale. La Cucina mobile esce cinque sere a settimana, dal lunedì al venerdì, e di recente anche la mattina per due volte a settimana, per offrire la colazione. Riusciamo così a fornire un caffè o un tè caldo con una brioche, e i sorrisi che si ricevono in cambio sono davvero molto belli.

Il numero dei volontari è calato durante la fase più acuta della pandemia?

Più che calato, è variato il numero e il tipo di volontari. Vista la situazione particolare, avevamo momentaneamente sospeso l’inclusione di nuovi volontari e ci siamo concentrati sulle persone che collaboravano già in precedenza e che conoscevano meglio i nostri servizi.

Ci siamo inizialmente confrontati con i volontari, alcuni dei quali, per anzianità o per fragilità della propria salute, non hanno potuto continuare a svolgere il servizio. Altri, invece, sono riusciti ad aiutarci di più rispetto a quanto facevano in precedenza, perché avevano più tempo libero, a causa dello lo smart working, oppure, purtroppo, perché lavoravano meno, trovandosi in cassa integrazione. A mio avviso, la risposta all’emergenza Coronavirus è stata bellissima: siamo riusciti, grazie al sostegno dei volontari, a risolvere molte situazioni problematiche, o quantomeno ad alleviarne il peso.

Ora una domanda sul tuo percorso personale. Come sei arrivato a svolgere questo ruolo? Quali studi universitari hai fatto?

I miei studi universitari si sono concentrati, in cinque anni, sull’ambito sociale. Ho conseguito una laurea triennale in Scienze politiche con una specializzazione in temi sociali e una laurea magistrale in Relazioni internazionali, con una specializzazione in cooperazione internazionale. In particolar modo, mi sono focalizzato sulle tematiche migratorie, una realtà dove Arca ha operato molto.

Nonostante alcune esperienze di lavoro durante gli studi, ho seguito un percorso prevalentemente accademico, quindi cercavo una realtà che mi permettesse di crescere acquisendo nozioni organizzative, ma che allo stesso tempo mi desse modo di operare direttamente sul campo. Dopo la laurea ho trovato questo annuncio per lavorare con Arca e mi è sembrato un buon banco di prova.

Dopo un anno piuttosto duro, come certo non mi sarei aspettato (come nessun altro, del resto) sono ancora qui e devo dire che, a livello lavorativo, ho vissuto delle esperienze molto intense. A settembre ho vissuto un’altra esperienza che ritengo molto importante da un punto di vista personale prima ancora che professionale: con due colleghe, sono andato all’isola di Lesbo, nel campo profughi di Moria, per fornire del supporto logistico. Siamo stati contattati da un’altra Onlus, l’associazione Remar SOS, la quale è tuttora operativa e con la quale abbiamo continuato a collaborare.

Che cosa ti ha lasciato questo lavoro?

È stata innanzitutto una crescita personale, ho visto contesti che altrimenti forse non avrei mai conosciuto. La cosa più bella di questo lavoro sono sicuramente le persone e le parole scambiate con loro. Spesso, purtroppo, siamo assuefatti dalle emergenze e non vediamo più le singole persone, ma ognuno ha una propria storia da raccontare, che in molti casi è sorprendentemente vicina alla nostra. Alcune vicende ti commuovono, a volte quello che ti raccontano nelle strutture di accoglienza a Milano sono davvero cose che possono succedere a chiunque.

Per quanto riguarda Moria, invece, lì c’è un altro livello di drammaticità, più pesante. Alcune storie che ti raccontano sono toccanti e pesanti da elaborare. Mi ha sorpreso vedere come ogni bambino, nella tragica realtà del campo profughi, fosse riuscito a costruirsi delle dinamiche che generavano una quotidianità semplice, benché drammatica, fatta di piccole cose. È straordinario osservare come le persone siano in grado di reagire in situazioni così dolorose; entrare in contatto con loro è un’esperienza che fa sempre crescere e dà prospettive nuove, perché ti permette di immedesimarti nell’altro e comprendere diversi contesti che altrimenti non avresti mai immaginato.

Un’ultima domanda, per chi fosse interessato a collaborare con il Progetto Arca. Come si fa a diventare volontari? E in quali altri modi è possibile sostenere il lavoro della fondazione?

Per diventare volontari c’è una pagina dedicata sul nostro sito. È necessario compilare alcuni dati, dopodiché riceviamo le candidature e ci mettiamo in contatto con chi si propone.

Per sostenere le attività della Fondazione, ci sono diversi canali attraverso cui raccogliamo fondi per le nostre attività. Rimando al nostro sito, dove è spiegato tutto nel dettaglio, e ai nostri canali social (Facebook, Instagram e Twitter), dove spieghiamo quello che facciamo, utilizzando anche testimonianze di ospiti e volontari.

CREDITS

Le immagini sono state gentilmente concesse dalla Fondazione Progetto Arca Onlus.

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