Appunti sulla depressione di sistema

Il mondo contemporaneo vive il fenomeno della depressione come una realtà che va ben al di là della mera competenza psichiatrica o della semplice faccenda privata. Se è vero, come pensava Walter Benjamin, che ogni epoca vanta la propria malattia, allora il mondo contemporaneo, nelle ragioni del suo sistema di regole e valori, è evidentemente pervaso dal morbo della depressione.

E questo perché essa è sistemica, istituzionale, endemica, generalizzata. Il XXI secolo occidentalmente globalizzato è percorso nei suoi più profondi canali circolatori e nelle sue più scandalose escrescenze superficiali da un’obbiettività depressiva, da una malinconia di sistema.

Il nostro mondo

Il nostro mondo è “tardo capitalista” – un sistema di produzione, scambio e profitto ormai ben poco familiare all’antenato ottocentesco –; e regola i rapporti umani, senza credibili eccezioni e vie di fuga nell’affermazione della competitività come valore primario, della guerra di tutti contro tutti come assurda, supposta dinamica di equilibrio sociale.

Non è tuttavia nelle dichiarazioni d’intenti e nelle formulazioni ideali che si configura realmente il fenomeno tardo capitalista. Dietro le bandiere del “mercato deregolamentato” e dello “Stato minimale”, della “meritocrazia” e dell’”efficienza”, dell’”autonomia” e della “specializzazione”, si è sviluppato a velocità inaudite un disastroso sistema di monopolio e assistenzialismo per i ricchi, sfruttamento e precarietà per i poveri, lobbismo e oligarchia nella politica, torpore e bruttezza nella cultura.

Ogni relazione umana diviene cinica, approfittatrice ed individualista. L’amore venduto dai film hollywoodiani è più un’occasione di eccentricità pulsionale che un legame di cura e fiducia. Le richieste degli ultimi vengono guardate con sospetto e derise con classismo (spesso, paradossalmente, indipendentemente dalla “classe” di provenienza). Ciò che entra nella nostra sfera personale lo fa solo per rimpinzare il nostro narcisismo, perfezionare una vuota e omologata apparenza, svuotarci da ogni interesse che ci leghi ai sentimenti semplici e alla gratuità. Per riempirci di feticci industriali, aspettative pubblicitarie e sentimenti di plastica.

Tutto questo, al di là delle forme di vita individuale e degli specifici livelli istituzionali, prende la forma di un insopportabile sistema di disuguaglianze economiche, politiche e sociali; che non solo non si tenta di arginare e combattere, ma che viene alimentato giorno dopo giorno – spesso nell’inconsapevolezza di un pubblico sì medio-colto, ma proprio per questo, come credeva Pasolini, poco informato e ingabbiato nelle narrazioni mainstream – da misure di austerità e tagli alla spesa pubblica. Precarizzazione e tassazioni regressive. Interruzione dei meccanismi democratici e delle tutele costituzionali a favore del libero saccheggio finanziario. Eradicazione della socialità e dello Stato sociale all’insegna del “socialismo per i ricchi [assistenzialismo, morbidezza legale, favoreggiamento fiscale, etc.] e capitalismo selvaggio per i poveri” (Martin Luther King).

Il sistema depressivo

Tutto questo non è semplicemente fonte di depressione: è un vero e proprio “sistema depressivo”, un sistema che vede nella depressione una condizione esistenziale di base e un perverso motore sociale. Come spiegheremo tra poco, infatti, nel mondo contemporaneo non esiste depressione senza mania, paludamento senza euforia, astenia radicale senza ansia performativa. La depressione è al contempo un effetto debilitante e un motore attivo della conservazione del presente stato di cose neoliberale.

Ma prima dobbiamo fare qualche chiarimento sulla letteratura che ci consente di parlare di “sistema depressivo”. E sul perché, come altrimenti potrebbe non risultare ovvio, non si tratta per noi di un discorso psicopatologico, ma di un problema di critica filosofica e teoria sociale.

Scrive Mark Fisher, nel suo capolavoro Realismo capitalista:

L’ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione:

[…]

Che qualsiasi malattia mentale possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause. Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina, allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica: ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista.

Nell’opera di Fisher ­– così come in quella di autori come Fredric Jameson, Franco Berardi, Slavoj Zizek, Alain Ehrenberg, ma anche in Zygmunt Bauman –; la depressione (o, più in generale, la malattia mentale) è una malformazione strutturale del sistema capitalistico neoliberale. Ehrenberg parla di “culto della performance” come paradigma d’azione della società tardo capitalista, in cui il modello della passività “disciplinare” e simil-carceraria del lavoratore di fabbrica (per un tot di ore al giorno, per un tot di giorni alla settimana, si smette di vivere e di agire volontaristicamente) viene sostituito dal modello del volontarismo onnipotente del “manager”, che equilibra la sua instancabile iperattività e il suo sentimento di poter ottenere tutto con la totale assenza di garanzie e un solitario individualismo: “fa’ da te!”.

Ovviamente, è facile capire verso quale dei due poli si è sbilanciato il modello. Dal momento che a contare non sono più la passiva disciplina e la stanca subordinazione. Ma la flessibilità, l’adattabilità e l’orgoglioso (e contento) stoicismo, viene da sé che quella (stragrande) parte della società che non è capace o non è disposta a sottoporsi a un regime di perenne instabilità/precarietà e che non può o non vuole rispondere alla psicologia del contento appiattimento sul lavoro (per di più in eterno mutamento), ne uscirà, eufemisticamente, penalizzata.

Il controllo

Questa illusione di libertà, volontà e potenza ­– che poi, nei fatti, non è che l’imposizione sociale di nuove richieste performative, per cui a venire imposta non è più la passività, ma un’insincera, inautentica, scimmiottesca e insensata “creatività” – è uno dei tratti fondamentali del passaggio da quelle che Michael Foucault intendeva come “società disciplinari” (il modello della prigione) a quelle che Gilles Deleuze intende come “società del controllo” (il modello della prigione a cielo aperto).

Il sistema di controllo è onnipresente: lascia gli individui (o, come dice Deleuze, i “dividuali”) ad un’apparente libertà; pur sorvegliandoli, manipolandoli ed indirizzandoli verso fini obbligati. Nei fatti, l’unica finalità che guida la riproduzione di questo sistema è la conservazione del suo stesso stato di cose. La divinizzazione del profitto e la sua moltiplicazione non semplicemente lineare, ma esponenziale, in perenne accelerazione, perennemente autocontraddicentesi e superantesi. Senza spazio per la stabilità necessaria alla buona salute dei ritmi di vita umani e al lento e riflessivo consolidamento delle tradizioni e degli abiti culturali.

Magari si può lavorare comodamente dal divano di casa e scegliersi i propri orari di lavoro, ma questo significa che, se si vuole essere “performativi” e vincere la “competizione”, si lavora (spesso, e anche questa è una novità, “cognitivamente”) 24/7. Non esiste un reale “stacco”.

Si è liberi di fare le scelte che si vogliono. Ma solo se esse rientrano in un ideale astratto e mai stabilmente definito di “CV” o “set di competenze”. E questo vuol dire che ci sentiremo sempre mancanti di qualcosa in rapporto a questo ideale. Ma la mancanza è strutturale, dal momento che non esiste una forma “perfetta” di riferimento, ma solo la tendenza al sempre di più, al senza tregua… e neanche questo basterà.

È impossibile ragionare su ideali morali adeguati alla nostra epoca e alimentare lo sviluppo etico, estetico, ideologico e spirituale di una cultura, di una storia e di una tradizione; dal momento che il nostro tempo è caratterizzato dal continuo superamento di se stesso (grazie soprattutto alle tecnologie digitali e all’ideale di profitto esponenziale) e non permette di conservare, riflettere, “ritenere” qualcosa ­– essendo dunque spesso più facile e politicamente meno frustrante “lasciar fare” ai mercati, alla “tecnica”, al di là di ogni principio democratico.

Debito e frustrazione

Ma la depressione sistemica si manifesta ad un livello specifico. Quando, ossia, la fatica di essere continuamente migliori di se stessi e sobbarcarsi sistematicamente uno statuto di onnipotenza si scontra con una realtà di fatti estremamente lontana dalla giustizia distributiva, dalle “pari opportunità” lavorative e dalla tanto decantata “meritocrazia”. La depressione arriva con il debito e con frustrazione.

Il dovere di essere onnipotenti si associa, nella realtà dei fatti, non ad un contento e glorioso orgoglio nei confronti della propria volontà, ma, paradossalmente, ad un sentimento di impotenza radicale. In questo “training perpetuo” e “delirio (imposto) di onnipotenza”, Bauman osserva come l’individuo si senta sempre “lasciato dietro”, mentre Deleuze parla di un vero e proprio “debito” perenne nei confronti di sé stessi (tali che non si diventerà mai) e della società.

Depressione

Se ciò caratterizza il sistema del culto della performance in maniera intrinseca, è tuttavia nella contingenza degli sviluppi reali di questo modello che il debito e il “ritardo” cronico si manifestano nella loro forma più deprimente.

Il sistema tardo capitalista condanna gli individui all’euforia, all’iperattività, alla creatività e alla “resilienza”, e tutto questo insieme di valori, che nella psicologia quotidiana si comprende sotto l’ombrello dell’”ansia”, contiene di per se stesso una condizione depressiva, dal momento che alla richiesta di essere onnipotenti segue necessariamente la consapevolezza di non poterlo essere; e quindi, nella fattualità contemporanea, di non poter essere, non poter e non voler più esistere.

Questa depressione (ci si perdoni l’uso libero del concetto) cade in una spirale di eterna dispersione e impossibilità di concepire una risalita quando a un sistema economico/lavorativo/relazionale insostenibile si associano i “vizi” (un eufemismo) dati dalla realizzazione effettiva di un sistema già solo ideologicamente insostenibile. L’ingiustizia sostanziale, le discriminazioni, il privilegio, il labirinti burocratici, il mancato riconoscimento dello sforzo, del merito, dei risultati e del lavoro, etc.

La depressione non è un male esistenziale, ma un morbo del sistema

In questo articolo (molto modesto nelle ambizioni e profondamente spurio nel contenuto) ci siamo guardati bene dal dare la giusta profondità intellettuale alla questione, innanzitutto evitando di fornire definizioni di “depressione”. Ci basta aver indicato, anche se superficialmente, che quella della depressione è una circostanza ambientale così pienamente assorbita, somatizzata ed interiorizzata dal nostro sistema da rendere ordinariamente difficile tematizzarla, metterla in questione, criticarla.

La depressione appartiene così profondamente alle nostre forme di vita e detta così spontaneamente i nostri standard di comportamento (routine, aspettative, desideri, progetti, ricordi, etc.) da risultare agli occhi di molti come un elemento “esistenziale”; una “fatalità” o un “destino” per principio corrispondente alla vita e quindi impossibile da scardinare. Notiamo facilmente come un’ordinaria sofferenza da stress cognitivo, da disperazione per la perenne incombenza di deadlines o da frustrazione indotta da una sterminata mole di lavoro, dia luogo spesso a riflessioni o a sfoghi linguistici che diremmo di carattere “assoluto”, se non “metafisico”. Si afferma che si preferirebbe “non essere mai nati”, che “la vita è una merda”, che “il mondo ce l’ha con me”, che è meglio la morte, ci si riferisce (seriamente o con amara ironia) a Dio chiedendogli “ma cosa ti ho fatto per meritarmi questo?”.

Il “realismo capitalista” preferisce che i molteplici sfoghi della depressione (ansia, burnout, astenia, sfiducia in sé stessi, etc.) si risolvano da uno psichiatra connivente o con l’uso (teleologicamente destinato all’abuso) di psicofarmaci. O, in alternativa, come appena spiegato, imputando le ragioni della propria miseria a Dio, al Mondo, all’Anima o ad un generico e indeterminato Senso della Vita.

Ma se, tuttavia, fossimo disposti a portare l’analisi del nostro malessere su un livello più maturo di credibilità e complessità, allora osserveremmo che i mali di cui ci lamentiamo sono mali sociali, determinati dall’ordine istituzionale/valoriale e dal sistema economico-politico che esercita delle strategie di controllo inaccettabili sulle interazioni, sui corpi e sulle menti contemporanei.

È come se per noi fosse divenuto scontato qualcosa che, non più tardi di quaranta o cinquanta anni fa, sarebbe stato considerato diffusamente e senza grandi opposizioni un sistema di 1) sfruttamento; 2) imbarbarimento dei rapporti interrelazionali; 3) crisi economicamente indotta delle istituzioni democratiche; e 4) affermazione di una morale/cultura/etica nichilista, egoista, materialista e disaggregante.


Fonti:

M. Fisher, Realismo Capitalista, Not, 2018

Stefano Micali, The Capitalistic Cult of Performance, Philosophy Today, 2010

Marsili e Pallagrosi

Immagini:

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Copertina

 

“Depressione” – al di là dell’utilizzo clinico della parola – è un concetto molto presente nel dibattito pubblico e intellettuale in merito alle distrofie e ai fallimenti del capitalismo contemporaneo. Il tardo capitalismo è un “sistema depressivo”, perché quella che viene commerciata come malattia “personale” o malformazione congenita non è in realtà che il prodotto primario di una società insostenibile. Un articolo di Emanuele Capozziello

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