SanPa

La confusione costruttiva di “SanPa”

Nel secondo episodio di SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, c’è uno spezzone che dura una frazione di secondo, eppure cristallizza l’intero senso della prima docuserie italiana di Netflix. Siamo alla fine degli anni Ottanta, nello studio di un talk show di Rete 4, in attesa di un ospite che non si palesa. Di lui c’è solo la sagoma: imponente, panciuta, tronfia, nera. Quell’ospite è Vincenzo Muccioli, il fondatore della comunità di recupero romagnola, e non si capisce se rassicurarsene o temerlo. Questo dubbio la serie non lo scioglie mai. Anzi, lo alimenta per tutti i suoi cinque episodi. Perché il compito che si è assegnata non è confezionare risposte, ma capire quanto in là ci si possa spingere per fare del bene. E nel frattempo, sullo sfondo, far scorrere un ventennio di storia sociale e televisiva italiana.

Si parte dal 1978, dalla droga che s’insinua silenziosa tra i giovani, dai genitori impotenti, e da uno Stato spiazzato che non sa come occuparsene. Questa assenza Vicenzo Muccioli decide di colmarla mettendo a disposizione i mezzi che ha: un podere malmesso e il suo carisma. Muccioli è un piccolo imprenditore agricolo, senza diploma e con una passione per la parapsicologia. Non ha nessuna competenza terapeutica, ma sa come parlare ai ragazzi, farli sentire ascoltati e creare un senso di famiglia. Così, da uno, i suoi ospiti diventano trenta, poi cento, poi mille; il podere si prende un’intera collina e si ristruttura in diverse aree di lavoro.

Muccioli sembra aver colto il punto esatto della questione: se i giovani si ritagliano un posto nel mondo, una considerazione, uno scopo da perseguire, il bisogno di rifuggire nella droga si fa sempre più piccolo fino a scomparire. Il problema, però, è che il percorso di recupero non è affatto semplice e lineare. Perciò quando la dipendenza torna a farsi sentire prepotente, Muccioli ricorre a mezzi altrettanto prepotenti. Se i ragazzi sfidano le regole, a ridimensionarli ci sono manate e pubblica umiliazione; se tentano la fuga, dopo il riacciuffo li attendono isolamento e catene.

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Raggiunto questo punto, secondo i canoni del documentario in episodi (specie quelli di Netflix), ci si aspetta che SanPa inizi ad annacquarsi per soffermarsi il più possibile sulla divisione. Quella tra la realtà deviata interna a San Patrignano e il mondo esterno formato da giudici e giudicanti indignati dalla sua devianza. Invece no. Invece SanPa imbocca una strada diversa. Forse anche perché Vincenzo Muccioli non è una figura che crea divisione. Muccioli piuttosto crea enorme confusione.

Per rendere l’idea, i creatori di SanPa hanno fatto un lavoro lungo e paziente di ricerca di immagini, filmati di repertorio, spezzoni nascosti in grandi archivi televisivi, e interviste girate durante la lavorazione della serie. Poi però Gianluca Neri (che ha sviluppato il progetto), Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli (che insieme a lui l’hanno scritto), e la regista Cosima Spender non hanno incollato i pezzi in modo da seguire un’ordinata linea di pensiero. Per ogni tesi, arriva pronta un antitesi. Dai genitori che chiedono di scagionare Muccioli si passa ai giudici che ne condannano i metodi; dal parere dei terapeuti ci si sposta alle testimonianze di chi a San Patrignano ha trascorso una parte di vita.

Non si rimbalza solo da un parere all’altro. Chiunque parli sembra aver preservato una specie di devozione nei confronti di Muccioli, che gli impedisce di prendere una ferma posizione. Anche quando la storia di San Patrignano si fa sempre più chiusa e pericolosa. Anche quando si arriva al culmine verso il quale l’intera serie si dirige: l’omicidio nel 1994 di Roberto Maranzano, il cui corpo fu ritrovato a centinaia di chilometri di distanza, nei pressi di Napoli.

SanPa

Il senso di SanPa è che giudicare Vincenzo Muccioli in maniera lucida è cosa difficile. Da un lato c’è un guru, un padre padrone, un calcolatore che ha esposto sé stesso e i suoi ragazzi ai media con strategia, mentendo, nascondendo il compiacimento dietro smorfie di fastidio. Dall’altro c’è un uomo che da padre ci si è comportato davvero, che si è speso per il bene degli altri e ci ha creduto fino a consumarsi. Un uomo che, esibendo i suoi insospettabili ragazzi incravattati a un pubblico sbalordito, ha ridato dignità a loro, e di riflesso alle rispettive famiglie. Muccioli ha mostrato agli italiani che i drogati sono recuperabili, quando non li si lascia morire di emarginazione.

I media sono una parte centrale e determinante nel racconto di SanPa. E sono anche il filtro attraverso il quale questo progetto così tanto intriso di storia e provincialismo italiano è riuscito a sembrare la prima produzione davvero internazionale di Netflix Italia. Nelle tante docuserie uscite di recente sulla piattaforma, infatti, il ruolo dei media influisce quasi sempre sugli eventi.

A differenza loro SanPa non racconta però il personaggio mediatico. SanPa cerca di capire (e far capire) l’uomo e il contesto che lo ha reso tale. Lo fa elevandosi dal sensazionalismo e dalla morbosità che spesso appartiene al genere. Solo ogni tanto cade nella tentazione di creare inquietudine con qualche evitabile dettaglio sordido da narrazione thriller, probabilmente anche per legare gli spettatori stranieri al racconto. Per il resto, SanPa resta focalizzata e concisa (in maniera apprezzabile, gli episodi sono stati ridotti dagli autori) sulla parte ancora buia nella storia di San Patrignano e del suo fondatore.

SanPa è una specie di prisma irregolare pieno zeppo di storie e dettagli, da raccogliere veloci mentre si rimbalza da un angolo all’altro. Non fornisce voci guida fuori campo, né risposte pronte all’uso, ma un po’ più di strumenti per provare a costruirsi con qualche difficoltà una propria opinione. O, forse, per rendersi conto che avere un’opinione non è sempre necessario.

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