Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano

27 gennaio: ormai la data parla da sé. Questa giornata simbolicamente riprende il giorno in cui i cancelli di Auschwitz sono stati abbattuti dall’esercito sovietico; eppure, ci dice molto di più: è il Giorno della Memoria, istituito nel 2005 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per commemorare le vittime della Shoah. In mezzo a tanta tragicità, c’è anche spazio per ricordare gli atti di coraggio compiuti da pochi giusti, che però hanno reso possibile il salvataggio di centinaia di persone. Oggi vogliamo parlare di Giorgio Perlasca, un personaggio la cui storia è rimasta a lungo in ombra.

Oskar Schindler

Conosciamo tutti la vicenda di Oskar Schindler, soprattutto grazie al celeberrimo film realizzato da Steven Spielberg. Un uomo comune, ricco e benestante, che aderisce al partito nazista, ma che ad un certo punto si rende pienamente conto della gravità dello sterminio in atto e decide così di agire per il bene, salvando più di mille ebrei da morte certa nei campi di concentramento. La storia di Perlasca ha alcune analogie con quella del ricco imprenditore tedesco. Innanzitutto, entrambi stavano in principio dalla parte sbagliata. Giorgio Perlasca, infatti, era un fascista.

Nato nel 1910, il piccolo Giorgio crebbe tra Como, città natale, e Maserà, in provincia di Padova, dove la famiglia si trasferì per motivi di lavoro. Una volta cresciuto, il ragazzo rimase colpito dagli ideali del fascismo, in particolare dalla sua versione dannunziana e nazionalista: litigò addirittura con un professore, il quale aveva criticato l’impresa di Fiume. Per la sua apologia nei confronti di D’Annunzio, però, ottenne un’espulsione, durata ben un anno, da tutte le scuole del Regno.

Non si può certo dire che Giorgio non credesse nel fascismo. Anzi, ne era entusiasta, dato che partì come volontario prima per l’Africa Orientale e in seguito per la Spagna, dalla parte del generale Francisco Franco. Qui combatté in un reggimento di artiglieria fino al termine del conflitto; ebbe inoltre la possibilità di apprendere la lingua e la cultura spagnola, facoltà che gli sarà molto utile in seguito, in un modo certamente imprevedibile.

Dopo aver fatto ritorno in patria, il suo rapporto con il fascismo entrò in crisi. Perlasca non approvava la vicinanza con la Germania, ma era ancora meno d’accordo con l’emanazione delle leggi razziali in Italia, nel 1938. Si dissociò dunque dal fascismo, senza però divenire mai un antifascista.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, venne inviato in qualità di diplomatico per acquistare vettovaglie per l’esercito italiano; lavorò dunque in Croazia, Serbia, Romania ed Ungheria. Ed è proprio mentre si trovava a Budapest che venne a sapere dell’Armistizio dell’8 settembre del ‘43: che fare? Perlasca, fedele al giuramento di fedeltà prestato al Re, decise di non aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Pertanto, venne internato insieme con altri diplomatici in una residenza per alcuni mesi.

Nell’ottobre del 1944, la situazione in Ungheria non era affatto tranquilla. Il paese era stato invaso dalla Germania nazista ed era stato istituito un nuovo governo-fantoccio, capeggiato da Ferenc Szálasi, esponente del Partito delle Croci Frecciate, filonazista e antisemita. Quell’anno erano iniziati i rastrellamenti ai danni dei cittadini ungheresi di origine ebraica, condotti dai nazisti tedeschi con la collaborazione delle autorità locali.

Busto dedicato a Giorgio Perlasca situato all’entrata dell’istituto di cultura italiano a Budapest

Poco prima, Perlasca era riuscito ad allontanarsi da Budapest, e quindi dal controllo sugli internati, approfittando di un permesso per una visita medica. Inizialmente si era nascosto a casa di alcuni conoscenti, poi aveva trovato rifugio presso l’Ambasciata spagnola, dove ottenne, grazie a un documento ricevuto una volta congedatosi dalla Spagna anni prima, un regolare passaporto sotto lo pseudonimo di Jorge Perlasca. Rimase molto colpito dalla folla di ebrei in fila per chiedere protezione e dunque si offrì per collaborare con Sanz Briz, l’Ambasciatore spagnolo.

L’Ambasciata spagnola, infatti, insieme con altri stati neutrali (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano), stava rilasciando dei salvacondotti per proteggere gli ebrei ungheresi. Il lavoro, già di per sé piuttosto impegnativo, era ulteriormente complicato dalla delicata situazione politica che si stava delineando in Ungheria. Alla fine di novembre del 1944, Sanz Briz dovette lasciare l’Ungheria, per non riconoscere il nuovo governo filonazista di Szàlasi.

Venuto a conoscenza di questa partenza, il giorno successivo il Ministero degli Interni ordinò lo sgombero delle cosiddette “case protette”, sulla riva del Danubio, dove risiedevano gli ebrei. Perlasca sapeva che questi ultimi sarebbero stati destinati ai campi di concentramento e prese la sua decisione: finse di essere il sostituto dell’Ambasciatore spagnolo, facendosi carico dell’onere di reggere l’Ambasciata di un paese che, per la verità, non era nemmeno il suo.

Perlasca agì senza pensare troppo, per un semplice sentimento di solidarietà nei confronti di altri uomini e donne. Ed è così che, rischiando la vita ogni giorno, riuscì a far credere a tutti di essere davvero un sostituto nominato dall’Ambasciatore spagnolo. Le case protette rimasero tali; e nel frattempo Jorge Perlasca rilasciò altri salvacondotti che conferivano la cittadinanza spagnola agli ebrei. Salvò così la vita a più di 5.000 persone.

Come lo stesso Perlasca affermò in un’intervista, non era solo questione di trasferire uomini e donne nelle case protette: era necessario mantenerle, e per farlo il falso Ambasciatore, dopo aver terminato i soldi della legazione spagnola e i propri, organizzò una serie di commissioni, che, palazzo per palazzo, erano incaricate di controllare le condizioni igieniche e di riferire chi avesse ancora dei risparmi. A quel punto, Perlasca stesso si premurava di chiedere loro di concedergli il denaro, per farne una cassa comune da usare per mantenere le numerose famiglie che non avevano più niente.

Non solo: più volte Perlasca, accompagnato da Raoul Wallenberg, l’incaricato personale del Re di Svezia, si recò personalmente presso la stazione per riuscire a recuperare gli ebrei, stipati nei vagoni bestiame. Tutto ciò, rischiando quotidianamente la vita. Insomma, le sue azioni possono essere indubbiamente ritenute a dir poco eroiche. Ciononostante, una volta ritornato in Italia, Giorgio Perlasca iniziò a condurre una vita normalissima, senza raccontare a nessuno – nemmeno ai suoi famigliari! – la sua storia. Che rimase nel dimenticatoio per quasi mezzo secolo.

Infatti, Perlasca si era premurato di redigere tre memoriali che consegnò all’Ambasciata spagnola e al governo italiano, per avvertirli di quanto era accaduto ed evitare eventuali imputazioni da parte del governo spagnolo. Tenne una copia per sé, che conservò segretamente. Giorgio Perlasca non cercò mai pubblicità, né riconoscimenti di alcun tipo. Finché, negli anni Ottanta, alcune donne ebree non iniziarono a cercare quel Jorge Perlasca che, da ragazzine, le aveva salvate dalla deportazione.

Ben presto la verità venne a galla, aumentarono le testimonianze di coloro che erano sopravvissuti grazie al misterioso Ambasciatore spagnolo – così abile nel recitare la sua parte che aveva ingannato persino molti ebrei ungheresi che stava salvando. Non a caso, molti lo hanno definito un “magnifico impostore”. Giorgio Perlasca ottenne così quel riconoscimento internazionale che non aveva mai cercato: nel 1989 Israele gli concesse il titolo di Giusto tra le Nazioni, venne piantato un albero in suo onore al museo Yad Vashem di Gerusalemme e nel cortile della sinagoga di Budapest fu posta una lapide che porta anche il suo nome, insieme con quello degli altri Giusti.

Perlasca con il Presidente Cossiga

La notorietà acquisita non scalfì l’animo semplice di Giorgio Perlasca, che aveva umilmente nascosto la sua storia di bontà ed improvvisamente si ritrovò a stringere la mano del Presidente della Repubblica, allora Francesco Cossiga. Gli venne concessa l’onorificenza di Grande Ufficiale, mentre nel dicembre 1991 il Senato approvò un vitalizio annuo, che tuttavia Perlasca rifiutò. Morì l’anno seguente, all’età di ottantadue anni. La sua vicenda divenne nota nel nostro Paese anche grazie al giornalista Enrico Deaglio, che a tal proposito scrisse il libro “La banalità del bene”.

E fu davvero banale quel bene fatto gratuitamente, con costanza, e senza volere nulla in cambio.

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