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Il processo ad Assange e il destino della libertà di informazione

Julian Assange non verrà estradato in America. Questa la decisione del giudice inglese Vanessa Baraitser, seppur seguita ad una lunga lista di motivi per i quali a suo parere sarebbe quello che Assange meriterebbe. La forte depressione diagnosticata al giornalista lo potrebbe verosimilmente spingere al suicidio all’interno del contesto delle carceri americane. Tuttavia, Baraitser ha deciso di negare il rilascio su cauzione: per lei il rischio che Assange possa tentare la fuga è ancora molto alto.

Ciò cui Baraitser allude, facendo riferimento alle modalità di detenzione americane, è il regime di isolamento prolungato cui Assange verrebbe con tutta probabilità sottoposto. L’uso di tale misura è ampiamente diffuso nei penitenziari americani. La sua durata può variare da un minimo di poche settimane sino a diverse anni. Nel caso di Chelsea Manning, la fonte di Assange e graziata da Obama nel 2017, il regime di isolamento era stato adottato come contromisura punitiva per i ripetuti tentativi della Manning di suicidarsi. Manning era stata condannata a trentacinque anni di detenzione, dei quali ne ha scontati sette prima di ricevere la grazia. L’accusa: aver fornito ad Assange materiale classificato riguardante le operazioni militari in Iraq.

Negli Stati Uniti Assange rischia una pena  fino a 175 anni di detenzione. Secondo la difesa, l’America starebbe insistendo per l’estradizione per poter portare avanti un processo politico. Una delle accuse sarebbe quella di spionaggio, secondo una legge americana del 1917. La pubblicazione, ormai dieci anni fa, di un incredibile numero di documenti secretati da parte di WikiLeaks, aveva causato non poco imbarazzo al governo americano. Il materiale, apparso su alcuni tra i più importanti quotidiani al mondo (New York Times, The Guardian, Der Spiegel, El Paìs e Le Monde), mise a nudo le realtà di numerosi governi. La fuga di notizie mise anche a repentaglio diversi rapporti diplomatici.

Il caso Assange rischia di generare un pericoloso precedente. La peculiarità del caso, rispetto a vicende analoghe (vedi il caso Snowden) risiede nel fatto che Assange non è né una fonte né un informatore, bensì un editore. La decisione di perseguirlo legalmente riporta quindi sul tavolo il dibattito sulla libertà di espressione e di informazione. Lo scontro tra questioni come il segreto di stato, la libertà di espressione, il diritto all’informazione e il ruolo di hacker e spie hanno colto come impreparate le nostre giurisdizioni e le nostre istituzioni.

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce il diritto alla ricerca, ricezione e diffusione di informazioni e idee “attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Tale libertà collide però con gli interessi dei governi e con la controversa questione della sicurezza nazionale. L’amministrazione americana, che riveste le proprie scelte in politica estera (e nazionale) del fulgido manto del patriottismo, ha mostrato un volto inedito quando materiale come il video Collateral Murder è stato reso pubblico da WikiLeaks. Il video, datato 12 luglio 2007, mostra l’assassinio arbitrario di un gruppo di civili da parte delle truppe americane a bordo di elicotteri in ricognizione sopra Nuova Baghdad. Nel gruppo erano presenti anche due giornalisti dell’agenzia Reuters, scambiati per ribelli armati.

Il proliferare di azioni di disobbedienza civile online, riunite sotto il neologismo hacktivism, dice forse qualcosa della percezione della trasparenza dell’informazione oggigiorno. Casi come quelli di Collateral Murder hanno avuto un profondo impatto sulla percezione delle istituzioni e della limpidezza dell’informazione ad esse collaterale. In seguito a queste rivelazioni, è divenuta come impellente la necessità di sfidare il potere e metterne a nudo le verità celate.

Secondo alcune analisi, la forza dirompente di Collateral Murder (e delle decine di documenti simili diffusi da WikiLeaks) sta nel mostrare la distanza abissale che intercorre tra le comunicazioni istituzionali ufficiali e i fatti che avvengono lontano dallo sguardo dei cittadini.  La scoperta di tale distanza può costituire una minaccia per la democrazia, poiché mostra come la maggior parte della popolazione sia di fatto tenuta all’oscuro di una sostanziosa fetta delle attività governative e militari. Sia l’hackeraggio delle informazioni da parte di Manning, sia la decisione di WikiLeaks di metterle in circolo, sono veri e propri atti sovversivi e di sfida al potere.

Il dibattito sul tavolo è complesso e controverso. In gioco vi è la legittimità del ruolo del giornalismo investigativo: il focus delle azioni legali è infatti l’atto stesso di diffondere l’informazione. Il contenuto dei documenti diffusi, dopo una prima reazione di indignazione e sconcerto, è rapidamente passato in secondo piano. Se una cittadinanza informata ha potere di mettere in discussione le azioni di un governo e interdirne la legittimità, come stabilire il confine tra diritto all’informazione e sicurezza nazionale? Chi ha il diritto di decidere in materia? È giusto che episodi come quello di Collateral Murder siano tenuti all’oscuro dei cittadini? Le risposte a tali quesiti sembrano essere ben lontane dal trovare una risposta univoca.

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