A denti stretti

– E allora gli dico “bello, non me ne frega un cazzo se tu non sei capace manco a lavarti i denti, è un problema tuo. Io non ho di questi problemi. Ne ho altri, ma non questo, okay? Io manco me ne accorgo. Prendo quel dannato spazzolino, ci sbatto sopra un po’ di quella roba e inizio a sfregare. E intanto penso agli affaracci miei”. E lui mi guarda con sta faccia da diploma sul muro e dice che non ho idea della quantità di dentifricio che un uomo butta giù nel corso di un’intera vita. “Bello, come puoi essere così sbarellato da mandare giù il dentifricio?”, gli dico.

– E lui?

– E lui niente, insiste, e mi propone di fare questa sfida del cazzo: devo lavarmi i denti per due minuti senza mai deglutire; se perdo, compro il suo dannato Aliment, Il primo dentifricio commestibile! “E facciamola”, gli dico, “ma se vinco qui davanti a tutti poi cosa fai? Te ne torni a calci in culo al corso di formazione da cui sei venuto?” E lui continua a guardarmi dall’alto del suo sorriso bianchissimo, assoluto, pubblicitario. Che poi che cazzo avrai mai studiato per finire a fare sto lavoro di merda? Ingegneria Orale? Fai il venditore di dentifricio al centro commerciale: complimenti, scienziato di sto cazzo. Tanto vale andare a spacciare, a sto punto. Ma questo non glielo dico. Quindi mi dà questo stramaledetto spazzolino, ci mette sopra il suo fottuto Merdadent e poi fa segno a tutti che sta per partire il cronometro sul display dello stand. “Due minuti”, annuncia come se fosse su un palcoscenico. Io mi soffio il naso perché non voglio rischiare nulla e intanto la gente intorno assume quella posa da e-ora-vediamo. Sai, braccia conserte, su e giù di menti, occhi che si fanno sottili come tanga a Copacabana. Tutto il campionario dello stronzo piccolo borghese. Certa gente sembra non aspetti altro che vederti fallire per dare un minimo di senso alla propria giornata del cazzo.

– Scusa, altre due per favore!

– Ehi, vacci piano. Devo rifarle tra un mese. Non ce le ho altre duemila cucuzze da regalare all’avvocato.

– Solo una, dai.

– Ma quale una, che cazzo. Guarda in che casino sono finito. Io ti racconto perché non mi sono presentato all’esame delle urine e tu mi ordini un’altra birra?

– Scusa. Va’ avanti.

– Ci sto provando. Se tu non cercassi di farmi fottere per sempre la patente te ne sarei grato. Dov’ero? Ah sì, questo coglione stava cercando di dimostrare questa stronzata colossale del dentifricio così buono da non poterlo non mandare giù. Puttanate. Io sono pronto, lo spazzolino pure. Tutti intorno mi guardano come fossi un passerotto in un gattile, e penso “ora ve la faccio vedere io, succhiacazzi che non siete altro”. E scatta quel dannato cronometro.

Così parto bello bello a spazzolarmi i palettoni. Strofino con convinzione, non voglio che quel rottinculo possa attaccarsi a qualcosa. E in effetti devo ammettere che il sapore è buono. Parte con la solita menta ma è come ci fosse anche un pizzico di qualcos’altro, qualcosa di più dolce e aromatico, forse lime. Piacevole. Io spazzolo alla grande, ci do dentro come non mai. Inizio da quelli davanti e gli sbatto in faccia un ghigno da scimpanzé ritardato. Poi passo a quelli in fondo. Saremo già a trenta secondi: devo resistere due minuti, niente di più facile. Il pomo d’adamo è lì al centro del collo e non lo muoveresti nemmeno con le cannonate. Ma dopo altri trenta secondi mi rendo conto di una cosa: porca puttana, ma sono fermo. Cioè, io a casa mentre mi lavo i denti mica me ne sto davanti al lavandino a guardarmi i peli del naso come voi altri coglioni. Vado in giro, faccio cose. Penso. Chi era quel tipo che per pensare andava in giro?

– Ulisse.

– Sì, e quella gran troia di tua madre. Macché Ulisse. Vabbé, andiamo avanti. Il punto è che non sono abituato a stare fermo mentre mi lavo i denti, ma me ne rendo conto solo adesso che sono a metà di quella sfida del cazzo. E ovviamente Mister Sorriso deve controllarmi il pomo d’adamo, non può mica inseguirmi per tutto il fottuto centro commerciale. Oddio, potrebbe anche, ma quello poi sarebbe così infame da inventarselo che ho deglutito. No, devo stare lì davanti a tutti, ho bisogno di testimoni. E intanto spazzolo come un giocatore di curling sotto anfetamine. A un certo punto ho la bocca così piena di quella merda mentolata e aromatica che quasi quasi viene voglia di buttarci dietro del rum: un bel mojito e via a molestare le commesse di Intimissimi. E guarda caso cosa c’ho nel taschino? Ma non lo faccio, ho una sfida in ballo e le urine il giorno dopo. Chi lo sente il capo se non passo l’esame? E c’ha ragione. Ti fermano per una cazzata qualunque, scoprono che non hai la patente e poi finiscono col controllarti anche il buco del culo. Quelli come noi non possono permetterselo, è così che la gente finisce al fresco, e io non ho nessuna voglia di ritornarci. Solo che al pensiero del mojito qualcosa salta nella padella della mia mente e comincia a friggere. Non so se è il sapore di quella schifezza che ho in bocca – che adesso è cambiato, ricorda certe sfumature agrumate tipo arancia, e Dio solo sa quanto ci starebbero bene gin, vermouth e Campari – o il fatto di non potermi muovere mentre cerco di non deglutire, o semplicemente la faccia da cazzone del tipo sotto al cronometro, fatto sta che qualcosa di bello grosso sfrigola nella mia testa e inizia a sparpagliare goccioline bollenti da tutte le parti. Vorrei farmi un giro per schiarirmi le idee e raffreddare il tutto, ma non posso. Mancano tipo trenta secondi e a me sembra che il tempo si sia come rincoglionito. Ohf, questa birra del cazzo fa davvero schifo. 

– La prossima ordinala tu allora.

– Ma quale prossima? Non ci sarà nessuna prossima, chiaro? Il diavolo in confronto a te è uno scolaretto del cazzo, perdio. Senti, hai mai rischiato di cacarti addosso? Intendo rischiato veramente. Hai presente quella forza misteriosa che fa sì che più ti avvicini al cesso e più il tuo culo sembra implodere nel tentativo di trattenersi? E finché sei in macchina tutto bene, tutto gestibile, ma poi parcheggi, arrivi sotto il palazzo e litighi con la serratura, dai delle gran sciabolate a vuoto con la chiave, e l’ascensore ovviamente è a un numero di piano che manco pensavi ci fosse nel tuo palazzo, e intanto ti contorci e sudi e i denti fanno un rumore che dovrebbero fare solamente le porte nei film dell’orrore, e poi arriva e schiacci il pulsante un numero di volte insanamente superiore al necessario, i piani salgono e quello che hai nel culo è un cazzo di scoiattolo mannaro il cui unico scopo nella vita sembra essere quello di mettere le mani sulla ghianda che in questo momento ti tiene tappato lo sfintere, e la porta di casa viene aggredita da un moschettiere bendato, e la lasci aperta la porta, perché vorresti correre verso il bagno ma non puoi, se apri troppo il compasso c’è il rischio che lo scoiattolo trovi uno spazietto per infilare le sue ditina mannare e afferrare la ghianda e lì sì che sono dolori, allora ti trascini pinguinesco per il corridoio e quando vedi il cesso finalmente parte lo slow motion, fai gli ultimi passi come hai visto fare una volta in tv da bambino, ad Atlanta ‘96 o Sidney 2000, e mentre sei in volo a metà del Fosbury finisci di abbassarti i pantaloni e inizi già a cacare, sì, era Atlanta, e in volo il tuo culo e il suo contenuto si separano, prendono due traiettorie distinte, ma la gravità e l’inerzia e qualche santo deputato a questo genere di cose per chissà quale depravata vocazione fa sì che la merda ploffi dritta dritta nel cesso un istante prima che tu atterri con le chiappe pelose e tremanti sulla tavoletta che non alzi mai, perché tu hai mira, non ne hai bisogno, e allora ricominci a respirare. Ecco, così sto durante quegli ultimi trenta fottutissimi secondi.

– Da’ qua, ho capito che non la bevi.

– Così sto, con la bocca piena di quel cazzo di dentifricio che non vede l’ora di farsi un giretto al piano di sotto. E vai a capire come e perché, adesso quella roba sa di quella cazzo di grappa moldava, hai presente quella di Bogdan? E in tutto questo continuo a spazzolarmi i denti e il piede destro mi batte più che al fottuto Tippete. Cerco di immaginarmeli inchiodati a terra, i piedi, ma funziona fino a un certo punto. Il cervello mi fuma, qualunque cosa ci sia in quella dannata padella adesso sta bruciando alla grande, ma io spazzolo forte, così forte che inizio a sentire la plastica oltre le setole e un leggero retrogusto di ruggine. Per mandare via il sapore del sangue il capo dice che ci vogliono cose chiare, tipo vodka e compagnia. Ma vabbé. Il punto è che amico, lì davanti a tutti, davanti a quello stronzo col sorriso paresico e a quella folla assetata di fallimento, sto dando di matto. E poi anche il pomo d’adamo si mette a fare lo stronzo, e allora lo metto mentalmente sotto tiro, tipo mani in alto e non ti muovere figlio di puttana. Ma lui trema ancora di più, come se gli stessi puntando davvero una pistola contro. E allo stesso tempo muore dalla voglia di farsi un su e giù, come uno di quei direttori di banca che non aspetta altro che tu ti distragga per fare la mossa e poi morire da eroe. Come cazzo ti viene in mente, sei assicurato, grandissimo coglione. Non ti muovere, stronzo, non ti muovere, dico al gargarozzo. E guardo il timer dello stand. 

Meno quindici

Il cazzone dei cazzoni non sembra preoccupato, continua ad aggiungere denti al suo sorriso da venditore di pentole. 

Meno dieci

Il mio pomo d’adamo adesso sembra un pelato in una pentola a pressione, non riesco più a gestirlo, sento che sto per sbroccare, e quel che è peggio è che i piedi sarebbero disposti a strapparsi pur di liberarsi dai chiodi.

Meno cinque

La gente intorno dice rabarbarorabarbarorabarbaro. Chiudo gli occhi per cercare un ultimo sforzo di concentrazione e vedo la padella che fuma e soffia manco c’avesse dentro un gatto nero. Poi il pomo d’adamo salta come una molletta dal balcone e sento il dentifricio andare giù giù per lo scivolo della mia dignità.

È come se mi fossi cacato addosso. Proprio lì, davanti a tutti.

Ma è allora che mi viene l’idea, la vedo chiara come il gin tonic. Mi avvicino a Mister Stronzadent, allo stand di quello stracazzo di dentifricio commestibile che voleva vendermi e che ormai mi ha venduto. Prendo un lungo sorso dalla fiaschetta, mi asciugo la bocca sulla manica. Gli sventolo il ferro sotto il naso e gli dico: “Bello, adesso te la propongo io una sfida. Vai, fai ripartire il timer. Vediamo se riesci a stare due minuti sotto tiro senza deglutire”.

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