Migranti ambientali: tra vuoto normativo e assenza di protezione internazionale

Secondo lInternational displacement monitoring centre, nel 2019 sono state 24.9 milioni le persone costrette a spostarsi per motivi legati alle condizioni climatiche. Il dato sui migranti ambientali è il più alto registrato dal 2012 ed è tre volte superiore al numero di persone migrate a causa di conflitti o persecuzioni. Il problema principale legato a questo numero è che rimane, per l’appunto, un numero anziché essere considerato come un insieme di persone in reale difficoltà.

Un problema di definizione

Ad oggi non esiste una definizione giuridica specifica per chi scappa da condizioni climatiche ostili. Negli anni si sono susseguiti diversi tentativi, nessuno dei quali però appare totalmente convincente. La definizione più esaustiva sembrava essere quella fornita dal professor Meyers:

[sono] le persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori ambientali di portata inconsueta, in particolare siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo, ristrettezze idriche e cambiamento climatico, come pure disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni. Di fronte a queste minacce ambientali, tali persone ritengono di non avere alternative alla ricerca di un sostentamento altrove, sia all’interno del Paese che al di fuori, sia su base semi-permanente che su base permanente.

Pur essendo completa, questa definizione non risolve il problema dello status giuridico di queste persone. Sono migranti, rifugiati o sfollati? Rispondere a questa domanda è essenziale per poter stabilire quale protezione e quali garanzie spetti a coloro che fuggono.

Migranti, rifugiati o sfollati?

Sebbene l’International Organization for Migration suggerisca lo status di “migrante ambientale”, alcuni esperti preferiscono lo status di “sfollato” o “rifugiato”. In merito a quest’ultima definizione però, vale la pena ricordare la posizione dell’ONU. Le Nazioni Unite escludono si possa parlare di “rifugiati ambientali” in quanto la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati non fa riferimento al fenomeno in questione.

Le implicazioni sulla mancata definizione ricadono soprattutto sul piano giuridico. Se questo fenomeno non rientra tra quelli previsti dalla Convenzione per ottenere lo status di rifugiato, significa che la protezione internazionale da essa prevista non può applicarsi a chi fugge per cause ambientali. Di conseguenza, chi migra perché ha perso la casa in seguito ad un’alluvione o perché il suo terreno non è più fertile a causa dell’erosione del suolo, non godrà del diritto di asilo di cui godono i rifugiati. Oltre alla Convenzione di Ginevra, vale la pena citare anche altre fonti. Ad esempio, i Principi guida dell’Onu sugli sfollati interni del 1998 e la Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati che risale al 1984. In entrambi i documenti si citano le catastrofi ambientali e climatiche, ma non si fa riferimento a misure di protezione per le vittime sfollate.

Perché è così difficile trovare una definizione?

Ma se è vero che il numero di migranti ambientali ha già raggiunto picchi spaventosi e se è vero che il dato è in continuo aumento, come mai non si è ancora trovata una definizione giuridica che apra le porte della protezione internazionale anche a queste persone? Le motivazioni sono molteplici.

Andra Cossa, avvocato che si occupa di immigrazione e diritti umani, spiega che “i problemi ambientali, tranne le catastrofi grandi con morti, sono catastrofi silenti. […] Il peggioramento di un ambiente agricolo è un processo lentissimo, pertanto non è facilmente percepibile”. Inoltre, il fenomeno in questione non è per nulla unitario.

Spesso il fattore climatico si inserisce in un contesto di disagio più ampio, fatto di precarietà economica o instabilità politica. Di conseguenza, è difficile estrapolare le cause migratorie legate all’ambiente in tali circostanze. Va poi considerato che i migranti ambientali spesso si muovono all’interno del Paese. Chi migra a causa di guerre, conflitti e persecuzioni, invece, si muove oltre i confini del proprio Stato. Infine, ci sono diverse categorie di migranti ambientali. Nello specifico, c’è chi migra in seguito ad un evento catastrofico improvviso e chi invece migra a causa di un processo di cambiamento climatico più lungo e meno percepibile. Nel primo caso è probabile che chi lascia la propria casa vi faccia ritorno terminata l’emergenza, nel secondo caso questo non accade. Tutti questi fattori sono in contraddizione con quanto richiesto dalla Convenzione di Ginevra per ottenere lo status di rifugiato.

Alcuni accenni di tutela

Malgrado ci sia ancora tanto da fare, va comunque detto che qualcosa si è mosso negli ultimi anni.

Nel gennaio 2020, il Comitato dell’Onu per i diritti umani, che era stato chiamato a pronunciarsi sul caso di Ioane Teitiota, la cui casa nel piccolo Stato insulare di Kiribati è minacciata dall’innalzamento del livello del mare, ha adottato una sentenza storica. L’ONU ha affermato che “le persone in fuga da un pericolo immediato a causa della crisi climatica, i rifugiati climatici, non possono essere costrette a tornare a casa”. Va specificato che, secondo il diritto internazionale, tale sentenza non è vincolante, ma crea comunque un precedente importante.

A livello europeo esistono alcuni esempi virtuosi di protezione umanitaria per i migranti ambientali, che però rimangono sporadici e insufficienti. La Svezia, ad esempio, ha incluso nel diritto di asilo una “protezione alternativa” per le persone che non possono tornare nel loro Paese a causa di un disastro ambientale. Il problema di questa misura è che non menziona i cambiamenti climatici a lenta insorgenza. Anche in Italia c’è stata una singolare sentenza del Tribunale di L’Aquila del 18 febbraio 2018. Il Tribunale ha riconosciuto il diritto di un cittadino del Bangladesh alla protezione umanitaria in quanto vittima di disastro ambientale che gli avrebbero fatto perdere il terreno agricolo. In questo caso si trattava di un’alluvione, un evento catastrofico improvviso che rappresenta anche un effetto di lungo periodo del cambiamento climatico.

Quali soluzioni sono possibili?

In generale la situazione non si prospetta rosea neanche per il futuro. La questione dei migranti ambientali è infatti particolarmente spinosa sul piano giuridico e gli Stati non sembrano aver interesse a prendere in mano la situazione. Uno studio realizzato per il Parlamento Europeo nel 2011 ha vagliato diverse soluzioni possibile, nessuna però sembra essere davvero percorribile. Un’estensione della Convenzione di Ginevra non è sostenibile. Il carattere “collettivo” del problema climatico contrasta il carattere “individuale” e “personale” dello status di rifugiato così come intenso dalla Convenzione. Inoltre, nella maggior parte dei casi, mancano i requisiti individuati dalla Convenzione per ottenere protezione umanitaria, come per esempio il rischio di “oppressione” personale.

Anche la creazione di una convenzione ad hoc appare complicata sotto diversi aspetti. Innanzitutto, chi fugge per cause ambientali spesso si muove all’interno del proprio Paese. Di conseguenza, rientra nella categoria degli “Internally Displaced People” sottoposta alla protezione e la sovranità interna dello Stato. Considerando ciò, una convenzione ad hoc rischierebbe di violare il divieto di ingerenza negli affari interni degli Stati. A ciò si aggiunge anche un problema legato alla natura negoziale del diritto internazionale. Nello specifico, una convenzione simile necessita di un ampio consenso della comunità internazionale nel suo insieme. La mancata ratifica da parte di alcuni Stati darebbe vita ad una disciplina applicabile solo in parte che inevitabilmente finirebbe per generare ulteriori squilibri e discriminazioni.

Una sfida per i prossimi anni

In questo quadro così insidioso resta l’ipotesi di una dichiarazione di “soft law”. Tale dichiarazione non sarebbe vincolante per gli Stati, ma potrebbe comunque fare da precorritrice ad un intervento più strutturato. In tutta questa situazione, infatti, la grande assente sembra essere la volontà degli Stati di colmare questo vuoto normativo. Questo potrebbe quindi sensibilizzare la comunità internazionale e spingerla a prendersi l’impegno concreto di affrontare un problema che, secondo la Banca Mondiale, entro il 2050 avrà il volto di 143 milioni di persone.

FONTI

E. Giacobbe, La tutela giuridica dei rifugiati ambientali, progetto Melting Pot Europa, disponibile alla pagina web www.meltingpot.org

M. Risucci, Migrazioni e cambiamenti climatici: il problema aperto dei profughi ambientali, Università di Pisa, 2012.

Osservatoriodiritti.it

IDMC.org

Opiniojuris.it

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