Un bar entrò in un uomo

Un bar entrò in un uomo, e a tutta prima fu un rapido cigolio di saracinesche negli occhi al risveglio. Gli odori e tutto il resto arrivarono dopo.

Tanto per cominciare, con lo spazzolino da denti ci mancò poco che non si ustionasse. Una volta sputato, analizzò con attenzione la chiazza scura e fumante che fino a un istante prima gorgogliava nella sua bocca come una moka tubercolotica, e con un pensiero non del tutto suo fu sicuro trattarsi di varietà Robusta, certo, non Arabica. Passò al pettine e poi alle forbicine da barba, e qualcosa di molto vicino alla felicità lo colse nel guardare quelle minuscole briciole brunoglassate che cadevano lievi sulle spalle e tutte intorno al lavandino, lasciando dietro di sé delle brevi scie di caldo profumo di burro cotto al forno. Pareva neve caramellata. Arrotolò diligentemente l’asciugamano e lo usò a mo’ di scopettino per raccoglierle nella mano a coppa. A metà dell’operazione, sullo stesso asciugamano si potevano già leggere i principali titoli del giorno. Diede un’occhiata distratta alla prima pagina e s’avviò.

Arrivato in ufficio, come poteva immaginarsi, tutto incominciò a farsi un tantino più delicato. I riccioli di burro dal temperamatite furono i primi a destare qualche velato sospetto tra le fila dei colleghi. E l’uomo quasi si sorprese, quando gli fecero notare che sedeva alla sua scrivania, come sempre, ma senza il come sempre fedele sostegno della sedia a reggergli il fondoschiena, e in effetti perché usare con coscienza un oggetto di cui puoi fare inconsapevolmente a meno? Poi fu la volta della postazione computer, la quale cominciò a puzzare di patatine e olive verso le undici e trenta con l’arrivo delle prime espettorazioni di cenere di sigaro e bianchino (annacquato, dissero alcuni tra i colleghi più avanti con gli anni), quando digitare una qualsiasi lettera sulla tastiera voleva dire immolare i polpastrelli al dio degli stuzzicadenti. Non che gli servissero granché, i polpastrelli, dal momento che lo schermo risultava interamente occupato da quella che in meno di due mani capì essere un’accesissima partita di Burraco dalla quale non c’era proprio verso di uscire, nemmeno staccando la spina o invocando il santo del giorno e di tutti quelli successivi. Tanto vale prendersi un’oretta di permesso e seguire in santa pace fino a pausa pranzo, pensò lui.

La cassiera della mensa si rivelò di gran lunga la meno incline alle lusinghe dello stupore. Una donna devotamente burocratica che, quando l’uomo estrasse dal portafogli un mazzetto di tovagliolini bianchi e qualche tappo di birra, si limitò a segnare sul conto e dire il prossimo con un sorriso che sapeva un po’ di plastica, ma una plastica dolce, tipo contenitore per alimenti nuovo.

Il caffè direttamente dalla moka tornò puntuale dopo pranzo, senza preavviso e senza spazzolino, ma questa volta l’uomo era preparato. Mandò giù come se non facesse male e si rallegrò di aver risparmiato un euro, che comunque non aveva. Il resto del pomeriggio filò via liscio come un pisolino, fatto salvo qualche starnuto-spritz di troppo e il problema delle cannucce da cocktail nel portapenne, prontamente risolto dall’intervento del Reparto Cancelleria.

La mail di licenziamento arrivò che era già sera inoltrata, e come un suono di vetri rotti lo sorprese all’altezza del fegato. Diceva solamente: sorsi lunghi e ben distesi. L’uomo non disse nulla, non fece nulla. Ormai non odorava che di se stesso. Solo gli rimase addosso quella leggera rigidità di scopa dimenticata a terra.

 

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