Bossy: parliamo di Black Lives Matter, Pride, “nazifemminismo” e femminismo intersezionale

Chiunque abbia letto qualcosa sul femminismo intersezionale si è sicuramente già imbattuto in Bossy, che si occupa a tutto tondo della lotta alle disuguaglianze facendo informazione e attivismo contro ogni stereotipo. Chi non conosce Bossy, invece, dovrebbe rimediare al più presto, perché non si può parlare di cultura senza senza parlare di parità e discriminazioni.

Ma in che modo il femminismo intersezionale si intreccia ai temi di attualità?
La caporedattrice di Bossy Alessandra Vescio ci ha raccontato come è nato Bossy e ha risposto alle nostre domande su come guardare il mondo con uno sguardo sempre più inclusivo e consapevole.

Come è nato Bossy? Cosa intendete per femminismo intersezionale?

Bossy è un’associazione no profit e progetto femminista intersezionale nato nel 2014, dalla volontà di puntare i riflettori su tematiche di cui ancora in Italia si parlava poco. Il concetto di intersezionalità è stato coniato nel 1989 dalla giurista e intellettuale femminista Kimberlé Crenshaw, che – occupandosi di casi di discriminazioni sul lavoro – si è accorta di come le oppressioni non viaggino su binari paralleli, ma siano sovrapposte l’una sull’altra.

Questo vuol dire che le discriminazioni come il razzismo e il sessismo non siano categorie separate, ma agiscano insieme. Una donna nera, ad esempio, subisce contemporaneamente sessismo e razzismo proprio in quanto donna nera, e dovrà fare i conti dunque con un tipo di oppressione diversa da quella che subisce una donna bianca o un uomo nero.

Essere femministi intersezionali, come è Bossy, vuol dire tenere conto di tutte le forme di discriminazioni e degli effetti diversi che queste hanno sulle persone; e occuparsi di tutte le marginalità per costruire una società inclusiva.

Cos’è il Progetto Sorellanza?

Il Progetto Sorellanza è il nostro modo di dare spazio a tutte quelle donne che, tramite la propria creatività, il proprio impegno e le proprie competenze, stanno provando a cambiare le cose. È uno spazio che dedichiamo ai progetti di imprenditoria femminile a tema sociale e lasciamo che siano le donne stesse che questi progetti li hanno creati a raccontarli.

Grazie a questa campagna lanciata nel 2018, abbiamo conosciuto realtà incredibili: da attiviste ambientaliste a una newsletter dedicata alle questioni di genere; da una serie TV LGBTQ+ al progetto fotografico dedicato alle donne che allattano fino allo spazio multiculturale dedicato ai bambini. Esistono moltissimi progetti ideati, creati e portati avanti da donne che hanno un impatto sociale fortissimo e che meriterebbero di avere più visibilità e soprattutto più credito e questo è il nostro piccolo modo per farlo.

Maschilismo, sessismo, razzismo, abilismo… e poi c’è chi parla di nazifemminismo. È una problematica reale?

Lo vediamo succedere di continuo e le femministe lo sanno bene e sono ormai abituate: tentare di screditare una pratica come è il femminismo che lotta per la costruzione di una società inclusiva è tipico di chi vive in una condizione di potere da sempre e teme di perdere i privilegi che ha.

Sia ben chiaro, il privilegio non è un merito, una colpa e soprattutto non vuol dire essere felici e/o esserlo sempre. Il punto però è sempre lo stesso: cosa vogliamo fare di questi privilegi, ovvero delle opportunità e dello spazio che abbiamo? Come li stiamo sfruttando? Stiamo approfittando della nostra condizione per perpetrare una o più forme di oppressione, per dare nuovi volti alle discriminazioni o stiamo provando a decostruire un sistema di potere per dare spazio anche alle categorie più emarginate?

Certo è che è inutile e dannoso parlare di femminismo se di femminismo non si sa nulla, non se ne conosce la storia, non si è mai letto un saggio femminista e si continua a pensare che il femminismo sia il contrario del maschilismo e che, in quanto tale, ha l’obiettivo di opprimere e discriminare gli uomini. Spoiler: non è così. Il femminismo intersezionale vuole abbattere il patriarcato, che fa male a tutt*, uomini compresi.

Parlare di femminismo intersezionale significa affrontare tantissimi temi di attualità: in questo periodo si è parlato molto della statua dedicata a Montanelli e del movimento Black Lives Matter, per esempio. Secondo voi è positivo che oggi questi dibattiti siano più sentiti rispetto al passato?

È naturale che la società evolva e che con essa i dibattiti si amplino e alcune idee o pratiche non vengano più ammesse: è giusto che sia così. Molti comportamenti in realtà non sono mai stati considerati accettabili, piuttosto le circostanze hanno portato a non poter alzare la voce o, quando la si alzava, a non essere ascoltat* e a essere zittit*. Il movimento Black Lives Matter esiste già da qualche anno e le proteste delle persone nere in America non sono una novità, perché il razzismo sistemico non lo è.

A cambiare probabilmente è il fatto che, grazie ai social network, a una comunicazione più globalizzata e alla tecnologia che ha dato la possibilità di registrare e diffondere materiali video, molte persone che non sapevano, fingevano di non sapere, minimizzavano o non erano pienamente coscienti del problema, hanno iniziato ad alzare la voce. Molte persone sono arrivate al limite della sopportazione.

In Italia, inoltre, queste proteste hanno contribuito a farci prendere coscienza del fatto che è arrivato il momento di fare i conti con il nostro passato coloniale, troppo a lungo nascosto sotto il tappeto o raccontato in maniera tendenziosa. Oggi che tutt* sono a conoscenza di ciò che succede dentro e fuori i confini dell’Italia, ciò che è successo prima, ciò che è ancora all’ordine del giorno per le persone non bianche in tutto il mondo; oggi che abbiamo tutti gli strumenti per capire, conoscere, studiare, approfondire, vedere, non possiamo più accettare questo stato di cose.

La Regione Umbria ha di recente posto un freno all’aborto farmacologico in day hospital. La scelta è stata contestata da numerosi movimenti femministi: voi cosa ne pensate?

Può sembrare un dettaglio di poco conto, un piccolo cambiamento di cui a malapena ci accorgeremo. In realtà non è così: la decisione dell’amministrazione regionale umbra è parte di un’azione mirata, che ha l’intento di privarci di diritti conquistati con anni di lotte. Ad oggi, le linee guida sull’interruzione volontaria di gravidanza dell’Istituto Superiore di Sanità prevedono un ricovero di tre giorni in caso di aborto farmacologico. La precedente amministrazione regionale umbra aveva deciso di dare la possibilità di accedere all’aborto farmacologico in day hospital, come succede già in molti Paesi d’Europa e in alcune regioni d’Italia.

Ritornare a una situazione precedente vuol dire fare dei passi indietro, molti passi indietro. Ripristinare i tre giorni di ricovero, specialmente in un periodo di pandemia che ha messo a rischio il servizio dell’interruzione volontaria di gravidanza a causa della scarsa disponibilità di personale medico e posti letto, vuol dire infatti porre intenzionalmente un ulteriore ostacolo.

Inoltre, non dimentichiamoci che Donatella Tesei, Presidente della Regione Umbria, nell’ottobre 2019 aveva firmato il Manifesto valoriale per le elezioni regionali presentato da associazioni antiabortiste: nel Manifesto si leggevano affermazioni come “La Regione sostiene la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna” e “La Regione sostiene la vita, dal concepimento fino alla morte naturale”. Con quella firma, Tesei si è fatta garante di un’azione politica ben precisa e la reintroduzione del ricovero in caso di aborto farmacologico è un primo passo in questo senso.

Giugno 2020 è stato un Pride Month molto particolare per via del coronavirus. Com’è stato celebrarlo da casa?

Non poter marciare per le strade quest’anno in occasione del Pride è stato difficile. Il Pride è sicuramente una festa, ma è anche un momento per ricordare la lotta e rivendicare i diritti e la libertà di essere e di amare. Quest’anno lo abbiamo vissuto nelle nostre case, per cause di forza maggiore, ma lo abbiamo celebrato comunque attraverso film, libri, documentari, chiacchierate virtuali e la voglia di diffondere amore e solidarietà attraverso i nostri social.

Inoltre, Bossy ha realizzato un magazine digitale dedicato alla comunità LGBTQ+ e il cui guadagno è stato interamente devoluto al Cassero LGBTI Center di Bologna, che proprio a causa del blocco delle attività imposto dalla pandemia, si è ritrovato nel mezzo di una grave crisi economica. Il Cassero per noi e per la nostra storia è sempre stato fondamentale e sappiamo che lo è per tutta la comunità LGBTQ+. Perciò, quando abbiamo saputo che rischiava di chiudere, abbiamo subito pensato di fare qualcosa per supportare questa preziosa realtà. Anche questo ci è sembrato un bel modo di celebrare il Pride. E intanto non vediamo l’ora di tornare a marciare il prossimo anno.

Cosa ha in programma Bossy per il futuro?

Al momento stiamo lavorando a un progetto importante che vedrà la luce nel 2021 e che ci emoziona molto, ma di cui non possiamo ancora anticipare nulla. Per il resto, Bossy ha sempre cercato di essere casa per le persone che ci seguono o ci scoprono per caso. Il nostro obiettivo è quello di informare e fare cultura, di parlare di ciò che succede attorno a noi in maniera approfondita, mai banale e sempre rispettosa e inclusiva, di fare sentire accolte tutte le persone che hanno bisogno di un luogo in cui ritrovarsi. E vogliamo semplicemente continuare a farlo con tutte le persone che incontreremo nel nostro cammino.

FONTI

Intervista ad Alessandra Vescio
Bossy.it

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