“L’ora di Agathe”: è il tempo di riscoprire se stessi

Toni pastello su volumi piccoli e leggermente ruvidi. Immagini delicate su tre quarti di copertina che lasciano poi spazio ad un colore univoco. Libri riconoscibili al primo sguardo, raffinati e attraenti all’occhio curioso del lettore. Opere che sembrano un biglietto di sola andata per particolari viaggi di narrativa. I romanzi editi da Iperborea hanno piano piano negli anni colonizzato le librerie italiane, dando spazio alla letteratura nord-europea nel nostro paese.

Ed è proprio questa casa editrice ad offrire nel 2019 L’ora di Agathe, breve romanzo di esordio della poetessa, scrittrice e psicologa Anne Cathrine Bomann.
Il libro ha anche conquistato recentemente il premio letterario internazionale “Scrivere per Amore”, istituito nel veronese per celebrare la scrittura che descrive il legame amoroso. Delicata come la sua copertina, la trama del romanzo si innesta con gran forza nell’attività professionale dell’autrice. Il protagonista è infatti un solitario psicanalista, privo di nome, di una piccola città francese degli anni Quaranta. Dopo una vita trascorsa ad ascoltare quelle altrui, l’uomo è vicinissimo alla pensione, tanto da contare in modo quasi ossessivo compulsivo le ore che mancano al raggiungimento dell’agognato traguardo.

Se fossi andato in pensione a settantadue anni, avrei avuto davanti miei ultimi cinque mesi di lavoro. Il che corrispondeva ventidue settimane e voleva dire che, se tutti pazienti si fossero presentati, mi restavano esattamente ottocento incontri. Tenendo conto di cancellazione malattie, il numero era di certo destinato a scendere. Era piuttosto confortante, dopotutto.

Le sue giornate trasudano fastidio e insofferenza, la sua quotidianità appare decisamente piatta, vuota e priva di qualsiasi esperienza emotivo-relazionale. Un’esistenza incentrata da un lato sul suo studio dove ascolta disinteressato i suoi ultimi pazienti e dall’altro sulla propria casa, barriera totalizzante verso il mondo esterno e verso un vicino, che si limita ad origliare. Nel suo metodismo solitario non sembra esserci nemmeno un minimo barlume di speranza o serenità per la fase post-pensionamento in arrivo.

Questo quadro grigio viene però improvvisamente illuminato da una giovanissima donna, Agathe Zimmermann. Fragile e avida di sostegno all’apparenza, ma fine e acuta nel concreto. Una paziente che conosciamo inizialmente tramite il punto di vista del terapeuta e che insiste a più riprese per essere seguita nella terapia pur consapevole dell’incognita del pensionamento. Nonostante la sua depressione e i vari tentativi di suicidio, sarà proprio lei, così desiderosa di capire come sciogliere la matassa di dolore che porta con sé, a sancire un profondo cambio di rotta della terapia e della vita del terapeuta stesso. Agathe è capace di trasformarsi da mera paziente a educatrice sentimentale, in un capovolgimento particolare in cui lo psichiatra sarà spontaneamente indotto a rivalutare il suo percorso e mettere in discussione le sue scelte. A poco a poco, si assiste infatti a un annullamento della ritrosia del terapeuta che si incamminerà in un dolce percorso di riscoperta di sé.

Ma dottore, come può passare l’esistenza ad alleviare il dolore degli altri, se non ha consapevolezza del suo?

Eppure, nonostante questo motore narrativo interessante e stimolante per il lettore, il viaggio dei due passeggeri alla riscoperta di se stessi non assume la profondità che ci si aspetterebbe dalle premesse. La quarta di copertina, decisamente avvincente, offre più di quanto la narrazione propone al lettore e l’introspezione non tocca i livelli del coinvolgimento profondo. I capitoli sono infatti molto brevi e scarni nella quantità di fatti, quasi come se la Bomann fosse ancora acerba nel raccontare con cura il suo lavoro. Muovendosi tra le frasi di uno stile scorrevole ma che non lascia traccia, sembra dunque di assistere a uno scambio molto superficiale e poco terapeutico per il lettore.
È persino difficile dare reale credito al potere di Agathe, capace di ammaliare e sbloccare il suo terapeuta in maniera fin troppo semplice dopo anni di torpore.

Ciò che rimane dalla lettura di questo breve romanzo è però un buon interrogativo pregnante: fino a quando si ha la possibilità di ricominciare? Quando è troppo tardi? E nella sua delicatezza Agathe si fa carico delle nostre paure e ci rassicura rispetto a quel nostro timore di non poter riprendere in mano la nostra vita anche dopo scelte sbagliate e periodi di vita mancata. Come lei stessa ci suggerisce, non è mai troppo tardi per superare il proprio blackout e diventare da spettatori del mondo, protagonisti consapevoli e partecipativi.

Non è vero, non è vero che è troppo tardi. Io credo che la vita consista in una lunga serie di scelte che siamo costretti a fare. È solo se rifiutiamo di assumerci questa responsabilità che tutto diventa indifferente.

 

FONTI

Anna Cathrine Bomann, L’ora di Agathe, Iperborea, 2019

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