Marco Paolini in “La macchina del capo”

Marco Paolini è maestro indiscusso del teatro italiano. Attore, scrittore, drammaturgo e produttore, è protagonista di un genere teatrale alquanto marginale in Italia: il teatro di narrazione. I suoi spettacoli, memorabili, incollano gli spettatori alle sedie. Catturano come per ipnosi e immergono lo spettatore in storie realistiche o di fantasia, con protagonisti reali o d’immaginazione. Insomma, Paolini è una sorta di cantastorie. Quasi sempre solo sulla scena, narra frammenti di vita e di avventure, catturando lo sguardo e le emozioni del pubblico. Così succede anche per La macchina del capo, uno dei suoi spettacoli più celebri. Consiste in un frammento di Album, raccolta di racconti teatrali scritti tra il 1964 e il 1984. Proprio come per i racconti letterari, i personaggi protagonisti restano gli stessi e crescono di spettacolo in spettacolo. I racconti possiedono dunque un senso proprio, ma sono inseriti in un macro-testo, ovvero un intreccio più ampio.

La macchina del capo è un racconto popolare che vede protagonista Nicola, un bambino di dieci anni. Nicola affronta le prime avventure della vita: la scuola, il gioco del calcio, la colonia. Insomma, percorre le tradizionali fasi di crescita. Paolini, attraverso lo spettacolo, ripercorre il periodo dell’infanzia. La scoperta del mondo, le prime responsabilità, ma anche le delusioni: ingredienti essenziali di una vita vissuta nella quotidianità di provincia. Diverse sono infatti le tematiche toccate. Oltre a essere un racconto di formazione, esso mette in scena le relazioni e i sentimenti umani (in particolare il rapporto padre-figlio). L’ambientazione è provinciale e Nicola è figlio di un ferroviere. Dunque Paolini non sceglie la messa in scena una storia straordinaria, sensazionale. Sceglie un protagonista bambino, che vive una vita tipica e tradizionale. Ma proprio all’interno della monotona quotidianità l’autore scopre l’eccezionalità dell’esistere, rendendo la crescita di Nicola spettacolare.

Marco Paolini assume le sembianze del bambino Nicola senza pretendere immedesimazione o imitazione, caratteristica del teatro di narrazione. L’attore di fatto interpreta differenti personaggi. In questo caso, ad esempio, Paolini assume le vesti di tanti bambini, oltre a Nicola. Tuttavia, ciò avviene conservando pienamente l’individualità dell’io narrante. Non c’è infatti illusione scenica. Lo spettatore crede nelle parole del narratore soltanto sulla base di un patto fiduciario. Ciò sta alla base di qualunque spettacolo teatrale, poiché ricorda molto il concetto di “sospensione dell’incredulità”. Lo spettatore è portato ad avere fiducia nell’attore e a credere in ciò che vede sulla scena, anche se si allontana dalla realtà. Nel teatro di narrazione, però, la fiducia deve necessariamente essere totale. È chiaro, infatti, che sulla scena non può esserci un bambino, ma un attore adulto che non ha la pretesa di assomigliare a un ragazzino.

Paolini, dunque, si limita a variare la propria interpretazione a livello espressivo e vocale. In particolare, modula la voce, attribuendo a ciascun personaggio un timbro specifico. In questo modo sulla scena vivono molteplici personaggi, rappresentati però da un solo attore. Paolini sfrutta anche le potenzialità dell’espressività facciale: ammiccamenti, sorrisi, smorfie, sono tipici del suo teatro. Ciò permette anche di creare empatia col pubblico e realizzare una comunicazione più immediata e diretta. Il corpo di Paolini lavora sul palcoscenico, ma certo non si può paragonare a quello di un attore mascherato. Dunque, l’intera energia è finalizzata alla resa del racconto. Proprio come un cantastorie, Paolini non è solo in scena. È affiancato da un chitarrista, Lorenzo Monguzzi. Egli accompagna lo spettacolo nella melodia e, talvolta, interviene in risposta a domande dell’attore. La macchina del capo è dunque una sorta di duetto: chitarra e voce.

La scenografia è semplice, anche se non spoglia. Balza immediatamente all’occhio la stranezza del palcoscenico. Paolini si muove su una lavagna gigante: il palco. Così l’attore, negli intermezzi melodici dello spettacolo, crea un disegno sul palco-lavagna con un grande gesso. Si capirà alla fine essere un treno con delle rotaie, proprio in riferimento alla professione del padre del protagonista, il ferroviere, appunto. Gli oggetti di scena sono materiali di cancelleria dalle dimensioni spropositate. Una grande gomma, una matita e un cancellino invadono il palcoscenico. Sullo sfondo ci sono dei vestiti, appesi come panni all’aria. Anch’essi sono ingranditi. Sono i vestiti di Nicola? Forse. In effetti, tutto il palcoscenico è il mondo di Nicola. Un mondo adulto, inadatto a un bambino di dieci anni. La macchina del capo racconta la storia di un’infanzia che si avvia verso l’età adulta, un percorso di sperimentazione e crescita, inevitabilmente spaventoso. Paolini stesso afferma:

Narro di un bambino di 10 anni e della sua fretta di crescere. Narro non per nostalgia, ma per divertimento, per chi c’era già e si ricorda i dettagli e per chi è nato dopo e si diverte alla storia.

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