L’innovatrice: l’industria del nostro secolo (parte II)

Perché il Giappone è tra le economie vincenti del nostro secolo? Perché ora domina il mercato dell’high-tech? Quale è la sua evoluzione?

Negli anni Settanta,  il Giappone ha conseguito un grande successo nei settori a produzione di massa, nei quali gli Statunitensi sembravano aver raggiunto un vantaggio competitivo apparentemente insuperabile, avendo sfruttato il boom economico del secondo dopoguerra. Le esportazioni verso gli USA aumentano vertiginosamente, probabilmente a causa dei salari molto più bassi e il maggior numero di ore lavorative. Un vantaggio basato sulla produzione di prodotti di alta qualità a prezzi più bassi, con partecipazioni incrociate, finanziate da un solido sistema bancario, che danno ai manager il controllo strategico delle risorse. Il grande sostegno finanziario permetteva inoltre l’occupazione a vita, con cui si poteva realizzare un apprendimento collettivo e cumulativo.

Giappone

Nel 1948 vengono sciolte grandissime holding (zaibatsu) che dominavano l’economia giapponese, e rimossi gli strati manageriali più alti, sostituiti da “dirigenti di terzo rango”. Con la riapertura del mercato azionario l’anno successivo i nuovi manager si impegnarono nelle partecipazioni incrociate, per difendersi dai diritti dei proprietari. Non c’erano contratti, ma era una pratica sostenuta dall’intera comunità. Nel 1975 erano il 60% del capitale sociale in circolazione quotato dalla Borsa di Tokyo. In questi anni di crescita veloce era fondamentale il ruolo delle banche, infatti ogni grande società industriale aveva una banca principale per monitorare il comportamento dei manager e favorire la collaborazione fra le società.

L’occupazione a vita

Alla base di tutto sicuramente c’era l’occupazione a vita, estesa anche agli operai dopo le agitazioni degli anni Quaranta e l’istituzione dei “sindacati d’impresa” che tutelavano i lavoratori. Essi vennero coinvolti nei processi di apprendimento, e quindi parteciparono al più generale processo di miglioramento dei prodotti e dei processi, ad esempio eliminando gli sprechi, portando al risparmio dei costi materiali, e quindi ad un vantaggio competitivo (che risiedeva nel risparmio dei costi).

La più grande vittoria era l’istituzionalizzazione dell’occupazione a vita, una tutela sia per i colletti blu che per i bianchi, fino all’età pensionabile (55 anni negli anni Ottanta, poi 69 e ora 65). Il sistema non differiva nei principi dall’integrazione organizzativa degli impiegati tecnici e amministrativi, propri dell’impresa manageriale americana, ma si distingueva per l’integrazione nei processi di apprendimento.

Gli studi condotti in Europa affermano che il vantaggio giapponese risiede nell’integrazione gerarchica dei lavoratori all’interno dei processi di apprendimento organizzativo. Si è posto l’accento sul ruolo del management a funzioni incrociate e sul controllo di qualità e sulla progettazione simultanea nel realizzare prodotti a basso costo, ma dall’alta qualità. Secondo la dimostrazione di Clark e Fujimoto, le industrie automobilistiche americane rendevano meno.

Giappone

Perché gli USA soffrono di questa concorrenza?

Ne soffrono a causa della segmentazione gerarchica delle attività di fabbrica (in America gli ingegneri non comunicavano tra ambiti di specializzazione diversi). Ma anche in seguito all’aumento della mobilità degli ingegneri tra imprese, in quanto essi si preoccupavano maggiormente della reputazione fra pari invece di integrare le loro conoscenze all’interno delle aree d’impresa per cui lavoravano. In Giappone invece aumentò sempre di più l’integrazione funzionale.

Inoltre, alla fine degli anni Settanta in Giappone viene lanciata la sfida (nel settore dei DRAM) che costringe la maggior parte delle imprese statunitensi a ritirarsi dal mercato, grazie all’integrazione organizzativa. Infatti, l’interazione più importante era quella fra il personale dei laboratori di R-S e dei laboratori ingegneristici di fabbrica (Okimoto e Nishi).

Nei microprocessori il valore aggiunto è dato dal progetto che ne determina l’utilizzo, in quello dei chip è nell’ingegneria del processo (anni Ottanta rendimento superiore del 40% rispetto USA).

Negli anni Novanta ci fu una fase di stagnazione. Sorse un problema microeconomico del sistema finanziario e nelle relative istituzioni necessarie per la creazione di imprese innovative. Durante il boom degli anni Ottanta venne alimentata la “bolla speculativa” dalle banche, che incanalavano i fondi in investimenti in immobili e azioni. Quando negli anni Novanta la bolla scoppiò, le banche erano gravate da montagne di crediti. Benché molti dei crediti siano stati ormai cancellati, le banche versano in condizioni precarie dato l’alto quantitativo di prestiti concesso a piccole società il cui potenziale di crescita è ben lontano da quello delle imprese protagoniste del periodo di rapida crescita e di espansione delle esportazioni.


 

FONTI

Chandler a., Amatori f., Hikino t. (eds.) (1997), Big Business and the Wealth of Nations, Cambridge University Press, Cambridge.

Marshall a. (1919), Industry and Trade, Macmillan, London.

Nelson r. (1991), Why Do Firms Differ, and How Does It Matter?, in “Strategic Management Journal”, 12, Special Issue, pp. 61-74.

Schumpeter j. (1934), The Theory of Economic Development, Harvard University Press, Cambridge (ma).

Teece d., Pisano g., Shuen a. (1997), Dynamic Capabilities and Strategic Management, in “Strategic Management Journal”, 18 (7), pp. 509-33.

 

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