La marea

«Hai sentito quello che dicono?»

«Chi?»

«Tutti, ma dove vivi? Questa notte ci sarà la luna rossa.»

«E allora?»

«E allora il mare sarà difficile, i moti delle onde faticosi e i pesci diffidenti.»

«Pescheremo lo stesso, vedrai.»

L’amico tacque e continuò a districare i nodi delle reti ancora umide, in piedi, in equilibrio sul fondo oscillante del piccolo peschereccio disordinato.

«Vi siete visti, oggi?»

«No.»

Rimasero in silenzio. Lui era seduto su una piccola panca di legno con una bacinella tra le ginocchia a sistemare dei galleggianti ormai consumati dall’acqua salata del mare. Era vero, non si erano visti quel giorno. A dire la verità non si vedevano più da un po’, ormai. Lui era uscito in mare ogni notte e a ogni alba era rientrato in porto con la ghiacciaia piena di pesci e la testa piena di parole che avrebbe voluto dirle e che lei non avrebbe ascoltato. Andava bene così, in fondo. Di notte teneva la mente occupata lavorando e appena arrivava a casa crollava in un sonno nero e senza sogni che durava fino al tramonto. Ogni tanto, però, si svegliava nel cuore del giorno, e si chiedeva cosa fosse andato storto tra di loro.

Aveva appena lanciato le reti in acqua quando, distratto da un riflesso rossastro sul vetro della cabina, si era voltato, e l’aveva vista; la luna era rossa, enorme, bassa dietro l’orizzonte nero del mare in quella notte d’estate. La guardò salire a una velocità costante e impressionante. Mai come in quel momento, solo in mezzo al mare, di notte, al buio, sull’acqua nera e profonda, si era sentito così vicino al cielo.

L’aria era fresca, l’acqua era calma, le onde regolari e silenziose, quasi un respiro, un battito. Le luci rosse degli aerei sopra di lui volavano nel cielo: stelle cadenti al led, scomparivano spente nel nulla. C’era quasi un’atmosfera apocalittica, la luna come un sole.

Quando sappiamo esattamente che una storia è finita? Che l’amore non c’è più? Ci ricordiamo bene di com’era all’inizio, ma dove è finito ora tutto? Dove sono andate tutte quelle cose, e soprattutto, come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto?

Dietro, nell’entroterra di alberi e pini silvestri, qualcosa doveva aver preso fuoco. Dietro alle palme si sollevava una nuvola rossa, rosa, arancione, tutte le sfumature del fuoco nel cielo nero. Lui lo vedeva, il fumo, dalla sua barchetta spersa nel nulla. Fumo rosso da un punto indefinito. Un incendio che divampava nella notte, nel cuore della notte nel cuore di una foresta. Probabilmente gli animali stavano fuggendo, come fuggiamo noi davanti al fuoco. “Al fuoco, al fuoco!”. Niente ci spaventa più del fuoco. Il fuoco del dolore, il fuoco dell’amore, il fuoco della passione che divora, brucia, divampa, distrugge. Il fuoco avrebbe distrutto tutto, e l’acqua  salata del mare, che rimane sulla pelle abbronzata rendendola secca, sarebbe arrivata troppo tardi, portata dai Canader stanchi. L’acqua è il corrispettivo liquido del fuoco, aveva detto qualcuno. E forse è proprio così. Se non ci fosse uno, non esisterebbe neanche l’altro.

Continuò a tenere gli occhi sollevati verso il cielo, e pensò a tutti i suoi amici pescatori, a loro, nell’immensità del mare, le mille leghe sotto alle loro barchette.

Come aveva predetto, quella luna avrebbe attirato i pesci verso la superficie piatta dell’acqua, il pescato sarebbe stato fortunato. La luna tutto attrae e tutto respinge, i sogni più belli e più romantici, quelli più tristi e dolorosi. La luna degli innamorati e la luna dei solitari, mille facce, mille crateri, mille ombre.

Avrebbe voluto farle una foto, ma sapeva bene che era impossibile. Era inafferrabile.

Davanti ai suoi occhi era così grande e luminosa, dietro a una lente sarebbe stata solo un pallino, un puntino, niente di più della luce di una sigaretta appena accesa, tonda, irregolare, frastagliata, di carta e di tabacco che bruciano. La luna bruciava, e loro e i pesci insieme a lei. E tutto in quella notte bruciava, e il giorno dopo ci sarebbero state le ceneri da raccogliere, la polvere, le ossa degli uccelli morti non si sa come, tutta cartilagine, niente che sarebbe rimasto, qualche mese per degradarsi completamente e ridursi in nulla. Solo polvere. Sempre solo polvere. Polvere e cenere. Polvere negli occhi, come il fumo negli occhi, il bruciore quasi accecante per una frazione di secondo. Ma la domanda che si faceva era sempre la stessa: quando, esattamente, ci rendiamo conto che un amore è finito, che una relazione è giunta al capolinea? Che non c’è più niente da fare se non soffiare sulla polvere. Un tempo era stata la follia, sarebbe così semplice, basterebbe ricordarsene e ricreare quell’amore assoluto, quei sentimenti forti, indissolubili.

Quanti pesci imprigionati nelle reti che vanno incontro alla morte, boccheggianti, domani sui banchi del mercato, buttati nel ghiaccio triturato, sanguinanti, l’occhio sbarrato nel nulla davanti al volto del miglior acquirente. Noi nelle stesse reti, le reti che ci tessiamo da soli, i nodi che non riusciamo più a disfare una volta che li abbiamo fatti, ci rimaniamo imprigionati dentro e non è colpa di nessuno, solo nostra. Nostra a vicenda. Boccheggiamo. Buttati nel ghiaccio al miglior offerente, sanguinanti, il mattino dopo.

“La marea non è stata clemente con noi, la luna ci ha fatti salire troppo in superficie, lì dove non siamo più riusciti a respirare e siamo morti, inevitabilmente. Ma è una calamita troppo forte, un magnete irresistibile. Come quella chimica dei corpi a cui non sappiamo opporci, irrazionale, totalizzante, irrefrenabile.”


 

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