Dopo anni di contenziosi giudiziari, battaglie, avvocati e magistrati, in Ecuador si respira un’aria di vittoria: i Waorani, popolazione indigena residente nella foresta amazzonica, sono riusciti a fermare la strapotenza di alcune compagnie petrolifere che intendevano trivellare quei territori pressoché incontaminati. L’Ecuador accoglie una piccola parte della foresta amazzonica, principalmente estesa lungo il confine orientale del paese, eppure è dal 1972 che petrolieri e multinazionali ne prosciugano i giacimenti petroliferi, danneggiando irreversibilmente i popoli indigeni e la vegetazione circostante e distruggendo così uno dei luoghi caratterizzati da una ricchissima biodiversità.
I primi danni visibili
I popoli indigeni hanno inziato a manifestare i primi sintomi – come tumori, leucemie e mortalità infantile elevata – derivati da 64 miliardi di litri di acque inquinate e terreni contaminati. A seguito di ciò, nel 1993, 30.000 abitanti hanno intrapreso un’azione legale negli Stati Uniti contro Texaco, sostenuti da un avvocato americano, Steven Donziger, grazie a cui hanno aperto il lungo processo, che per più di vent’anni ha catturato l’attenzione pubblica. Un altro importantissimo baluardo petrolifero si è poi inserito nella complicata vicenda: Chevron (potremmo dire discendente della Standard Oil Company, sciolta nel 1911), ha acquisito Texaco nel 2001 con gli annessi stralci giudiziari entro i quali si trovava imbrigliata.



Nel 2011 è arrivata la prima sentenza, con la quale il colosso americano è stato multato per 18 miliardi di dollari, cifra poi abbassata a 9,5 miliardi. Questi soldi non sono stati mai pagati, in quanto la Chevron ha sempre rifiutato le accuse, tant’è che l’Ecuador ha dovuto aprire contenziosi giudiziari contro l’interessata anche in altri paesi, al fine di sperare di poter recuperare del credito tramite la confisca dei beni della società in quel territorio, poiché la Texaco aveva smantellato le sue postazioni e spostato il denaro al momento dello scoppio della vicenda.
La situazione inizia a cambiare
La svolta è arrivata nel 2014, quando un tribunale statunitense, a seguito di un’oculata indagine, ha dichiarato la sentenza emessa nel 2011 frutto di frode, estorsione e corruzione e la reputazione dell’avvocato Steven Donziger è risultata totalmente compromessa. L’avvocato, tempo prima, aveva commissionato la ripresa di un film che rappresentasse le sue battaglie per dare giustizia a quei popoli senza voce e sono serviti addirittura tre anni per potarlo a compimento. E’ stato proprio grazie ad alcune scene del film che i giudici si sono resi conto di alcune discrepanze tra la versione in tribunale e quella ripresa dalle telecamere. E’ emerso addirittura che Donziger aveva corrotto il giudice della prima sentenza, promettendogli 500 mila dollari, se quest’ultimo avesse votato a favore della sua causa: e così è stato.



Arriviamo al 2015: le cose si intrecciano ulteriormente dopo che la Corte Suprema canadese è intervenuta per dirimere la controversia come giudice imparziale.
La vittoria degli indigeni
La sentenza definitiva è stata pronunciata il 13 luglio 2018 in favore dei 30.000 abitanti, indigeni e non, delle zone contaminate dall’oro nero. Nonostante le varie sentenze contrastanti, ma che a livello internazionale concordano sul pagamento della multa dovuta da Chevron, questa compagnia non sembra demordere, tant’è che l’Ecuador sta attualmente cercando di recuperare i suoi crediti attraverso qualsiasi cavillo. Si è cercato, infatti, di interpellare anche la Chevron Canada Limited, consociata di Chevron Corporation, per ottenere il millantato risarcimento. Anche in questo caso è intervenuta la Corte canadese, che il 4 aprile scorso si è espressa circa il coinvolgimento della prima, giudicandolo assolutamente ingiustificato, in quanto si tratta di un’entità a sé stante.
Dal lontano 1993, quando tutto è iniziato, la popolazione locale ha combattuto un’estenuante guerra per proteggere il più importante polmone verde della terra. Nonostante ciò, negli anni, l’ex presidente dell’Ecuador Rafael Correa (mandato 2007-2017), dopo un iniziale progetto volto alla salvaguardia e alla protezione della foresta amazzonica, conosciuto con il nome di Yasuni-Itt Initiative (il quale però non ha dato i risultati sperati), nel settembre 2016 ha acconsentito all’estrazione di petrolio dalla riserva naturale di Yasuni. Niente di più contraddittorio e scoraggiante per quei popoli, come i Waorani, che in quelle terre vivono e che, costantemente si trovano costretti ad ostacolare l’ennesima pretesa di una multinazionale straniera, noncurante del fatto che il danno che apportano al cuore pulsante del pianeta, presto o tardi avrà effetti anche su di sé.
Questa volta però, gli indigeni hanno vinto. Hanno vinto contro lo sfruttamento, la soppressione, la distruzione, ma soprattutto la prepotenza.