Nella strage di Christchurch chi ha seminato terrore ha raccolto silenzio

Lo scorso 15 marzo avveniva a Christchurch, Nuova Zelanda, un’altra strage targata intolleranza: in nome del suprematismo bianco, cinquanta fedeli musulmani perdono la vita sotto il fuoco di un ventottenne neozelandese. L’attentatore ha cercato di avvolgere le sue gesta nel mito, ma la comunità non si è prestata al gioco. E lo ha avvolto, piuttosto, nell’oblio.

“Ha tentato molte cose con il suo atto terroristico, ma una di esse era la notorietà. E per questo non mi sentirete mai dire il suo nome. È un terrorista. È un criminale. È un estremista. Ma sarà, quando parlo io, senza nome. E a voi altri, vi prego: dite i nomi di chi è morto, invece del nome dell’uomo che se li è portati via. Potrà aver cercato la fama, ma noi in Nuova Zelanda non gli daremo nulla. Neanche il suo nome.

Tutto parte da queste parole di Jacinda Ardern, il Primo Ministro neozelandese, in un discorso al suo parlamento. Una richiesta semplice, ma doverosa, sentita, e che molto probabilmente sarà anche efficace.

B.T. – la sigla è dovuta, in onore di questo appello – aveva iniziato una diretta facebook, pubblicato foto della sua impresa e persino tappezzato i suoi strumenti di morte con i nomi di altre figure distintesi in crociate antislamiche di ieri e di oggi: da Luca Traini, l’italiano che un anno fa tentò una strage di immigrati a Macerata, si va indietro fino all’XI secolo tra condottieri e guerrieri vari: tutti nomi di combattenti contro la minaccia musulmana, in varie parti del mondo.

Jacinda Ardern durante la visita alla comunità musulmana del Phillipstown Community Centre, il 16 marzo 2019

Un’eredità che gli è stata negata, a vari livelli della società. Innanzitutto politico: alla richiesta della premier ha fatto seguito anche un’immediata proposta di revisione della legge sul porto d’armi. Le misure più restrittive sembrerebbero essere largamente appoggiate, sia dalle altre forze parlamentari sia dai cittadini. C’è persino chi ha già restituito le proprie armi, spontaneamente.

Sul piano mediatico, lo sforzo del silenzio sulle gesta dell’attentatore è stato condiviso anche da tre compagnie di telefonia neozelandesi. Subito dopo la strage, infatti, Vodafone NZ, Spark e 2degrees prendono unitariamente la decisione di oscurare i siti che ospitavano i video dell’attentatore. Pochi giorni dopo, scrivono anche una lettera ai CEO di Facebook, Google e Twitter:

“Abbiamo fatto in modo che fosse più difficile vedere e condividere questo contenuto – riducendo il rischio che i nostri clienti siano inavvertitamente esposti ad esso e limitando la fama che il killer stava chiaramente cercando di ottenere. […] La battaglia più grande è come impedire che questo tipo di materiale sia caricato e condiviso sui social media e i forum.

Facciamo appello a Facebook, Twitter e Google, le cui piattaforme convogliano così tanti contenuti, perché siano parte di un confronto urgente a livello industriale e del governo neozelandese su una soluzione duratura a questo problema.

[…] Le piattaforme di condivisione hanno il dovere di preoccuparsi attivamente del controllo dei contenuti pericolosi, di agire rapidamente per rimuovere contenuti segnalati loro come illegali e di assicurarsi che tale materiale – una volta identificato – non possa essere caricato nuovamente.”

Per ora, Facebook ha inserito nazionalismo, suprematismo e separatismo bianco nel novero dei temi banditi sulla propria piattaforma. Ma la polemica su responsabilità e modalità per tarpare le ali (e la lingua) al terrorismo sui social resta accesa. Questi provvedimenti da un lato restano ancora soltanto argini, e dall’altro rischiano di diventare censura.

Intanto una prima risposta spontanea e propositiva all’accaduto arriva dalla popolazione neozelandese stessa. Tra i gesti – simbolici e non solo – compiuti, spiccano in particolare gli Haka, la danza maori resa celebre dalla nazionale di rugby All Blacks. L’hanno inscenata gruppi di giovani e adulti per le strade, nelle scuole – anche musulmane – e davanti alle moschee colpite. Dal momento che non esiste una sola Haka, ma diverse, il New Zealand Maori Council ne ha scritta anche una dedicata.

“Perché aspettiamo che accada qualcosa di brutto per riunirci, finalmente, tutti insieme? Svegliatevi, siate veraci, spogliatevi delle cose brutte come la negatività e lo screditare gli altri, perché l’elemento di fondo è il razzismo. Calpestatelo, sbarazzatevene, così che rimanga solo la vostra vera persona. Io sono te, tu sei me, questo siamo noi, è la cosa più grande al mondo, questo popolo.”

Per la cerimonia di commemorazione di venerdì 22 marzo, Hagley Park si riempie di circa 5 mila persone. Molte donne indossano in segno di solidarietà un foulard che vela loro il capo. L’imam Gamal Fouda conclude la preghiera del venerdì ripetendo la parola maori per amore: aroha, aroha, aroha.

È così che all’indomani della strage, la Nuova Zelanda sembra parlare una sola lingua, in cui solidarietà ed identità si mescolano. Una lingua che sembra poter risuonare proprio grazie all’appello di Jacinda Ardern.



 

 

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