Perché ‘Mining The Museum’ di Fred Wilson fa ancora riflettere, trent’anni dopo

Sono passati quasi trent’anni da quando Fred Wilson ha creato una delle opere d’arte più potenti e d’impatto degli ultimi tempi.

Fred Wilson

Wilson è un artista afroamericano di origini caraibiche, nato negli Stati Uniti nel 1945. Tra gli altri successi, ha rappresentato gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia del 2003 e ha ricevuto molti premi prestigiosi, tra cui il MacArthur Foundation’s Genius Grant, nel 1999. A seguito degli studi artistici, Wilson evolve il suo stile: dalla scultura, passa a un lavoro completamente concettuale, concentrandosi sulle tematiche che lo hanno colpito crescendo, quando stava prendendo coscienza della propria identità e della propria immagine. Studia soprattutto la rappresentazione delle persone di colore in contesti spesso gestiti da individui bianchi, come avviene tale rappresentazione e come non avviene.

Così, Wilson smette di creare grandi sculture e passa a lavorare con oggetti già esistenti: i manufatti presenti nelle collezioni museali. Utilizza l’istituzione museo come dispositivo critico per analizzare la società contemporanea e denunciarne gli aspetti negativi. Avendo precedentemente lavorato come guardia museale, Wilson è ben conscio di quanto sia sbilanciata la presenza di persone bianche e persone di colore all’interno di queste istituzioni. La maggior parte dei custodi sono infatti di colore, ma la stragrande maggioranza dei curatori e direttori di musei sono bianchi, anche quando si tratta di istituzioni con una collezione legata a popolazioni afroamericane. Partendo da queste osservazioni, Wilson crea opere – o meglio, riallestimenti artistici -, che denunciano tale contraddizione, intrinseca nella società contemporanea. L’esposizione Mining The Museum è stato il suo lavoro più discusso, più famoso e che ha ottenuto un successo enorme.

In realtà, definire Mining The Museum un’opera d’arte non è del tutto corretto. È vero che è un lavoro artistico, in quanto prodotto da un artista e ospitato in un museo; tuttavia è anche un’installazioneun’opera concettuale e un lavoro storico che tocca tematiche sociali, museali e tabù. Più precisamente, si potrebbe dire che Mining The Museum, realizzato nel 1992, è stato un riallestimento museale, un’operazione storico-artistica con fini sociali. Si è tenuto dal 4 aprile 1992 al 28 febbraio dell’anno successivo, presso il Maryland Historical Society (MdHS) di Baltimora.

Il museo si presenta come un’istituzione culturale che documenta e racconta la storia dello Stato del Maryland, e Wilson lo scelse per un motivo preciso:

[I] chose the historical society because it seemed the archetypical museum that hadn’t changed. New thoughts in museum display had not affected that institution for one reason or another. I thought it would provide the raw material for me to work with.

Una volta visitata la collezione, Wilson si rese conto che qualcosa non andava. Il racconto presentato dal museo aveva troppi silenzi, sorvolava su alcuni aspetti e adottava una prospettiva univoca, presentando una versione ridotta della storia.

Tramite un lungo e profondo lavoro di riflessione, l’artista capì qual era il problema e come renderlo visibile ai visitatori. Già a partire dal titolo dell’esposizione, il suo intento appare chiaro e stratificato: l’artista vuole minare (“mining”) il museo e la sua immagine consueta, per arrivare a qualcosa di più corretto, di più profondo. Vuole inoltre appropriarsi della collezione del museo (“mine”), in modo da darle una nuova interpretazione, un nuovo assetto ideato da una persona afroamericana, dunque con una storia diversa dai curatori precedenti. I responsabili del museo gli lasciarono libero accesso a tutta la collezione, che comprende mobili, arredi, oggetti di vita quotidiana, manufatti di vario genere, pitture, tessuti, documenti scritti. Wilson riallestì un intero piano del museo, semplicemente riaccostando i manufatti già presenti in modo diverso.

Il museo è la mia tavolozza.

Scelse inoltre di non utilizzare didascalie esplicative o testi di spiegazione, lasciando che fossero le nuove contrapposizioni a parlare. Rifletté quindi sul ruolo del museo, sull’effetto che una certa scelta espositiva ha sul visitatore, su cosa esprime. Infatti l’allestimento museale non è mai neutrale, in quanto frutto delle scelte di una o più persone. Wilson si concentrò proprio su questa impossibilità intrinseca, e sulle scelte effettuate dai curatori:

What they put on view says a lot about a museum, but what they don’t put on view says even more.

Perché i responsabili avevano deciso di mostrare proprio quegli oggetti, invece di altri? Perché c’erano statue di personaggi storici bianchi e nemmeno una di una persona di colore, nonostante il museo si ponesse come un’istituzione culturale a trecentosessanta gradi?

Questa era una delle tante domande che sorgevano, quando si visitava la prima sala dell’esposizione. Qui, l’artista presentava una serie di piedistalli rappresentanti statue di Napoleone Bonaparte, Frederik Douglass e Andrew Jackson – bianchi che non hanno storicamente niente a che fare con lo stato del Maryland -, contrapposti ad altrettanti piedistalli vuoti, solamente con i nomi di Harriet Tubman, Frederick Douglass e Benjamin Banneker: uomini e donne di colore, che hanno avuto ruoli fondamentali per il Maryland, ma, paradossalmente, sono assenti dalla collezione del museo. Inoltre, al centro troneggiava un globo d’argento, con la parola TRUTH a grandi lettere: un museo dovrebbe mostrare la verità, ma chi decide cos’è la verità? Quale verità viene mostrata?

Truth Trophy, Fred Wilson, Mining The Museum, 1992-93, Maryland Historical Society, Baltimora

Il MdHS raccontava la Storia dal punto di vista di persone bianche. Wilson scardinò questa narrativa, cambiò ottica, affiancando oggetti prodotti nello stesso periodo storico, utilizzati nello stesso contesto, ma da persone di colore e non, da persone schiavizzate e da borghesi e nobili liberi. Con questa logica espose nella stessa teca un paio di manette di metallo per gli schiavi, contrapposte ad una serie di brocche e bicchieri d’argento riccamente decorati. La didascalia di accompagnamento recitava soltanto Metalwork 1793-1880: non è tanto quello che dice che fa riflettere, quanto quello che non dice.

Metalwork 1793-1880, Fred Wilson, Mining The Museum, 1992-93, Maryland Historical Society, Baltimora

Wilson lavorò molto sulla presenza e sull’assenza degli oggetti, cercando di rendere visibile l’invisibile, mostrando quello che il museo sceglie di non dire. Impressionante era la sala con gli oggetti in legno (cabinetmaking), in cui Wilson dispose alcune sedute chiaramente ideate per un pubblico borghese, attorno a una postazione dove gli schiavi venivano legati durante le punizioni pubbliche.

Cabinetmaking, Fred Wilson, Mining The Museum, 1992-93, Maryland Historical Society, Baltimora

Le conseguenze di Mining The Museum sono state immediate: lo stesso MdHS ha preso coscienza delle critiche innalzate da Wilson e si è attivato per modificare le didascalie di alcune opere d’arte in collezione, seguendo la denuncia dell’artista. Se per esempio nel ritratto di Henry Darnall III realizzato da Justus Kühn, non si faceva minimamente menzione del ragazzo di colore, a seguito di Mining The Museum la didascalia ne riconosce la presenza (“To the left, is an African American boy in an orange coat, holding a dead bird”). Ancora sorvola sul collare di ferro che porta al collo e sulla sua condizione di schiavitù, e la cosa non è certo ideale, ma almeno un passo è stato fatto.

Justus E. Kühn, Ritratto di Henry Darnall III, 1710 ca., Maryland Historical Sociaty, Baltimora

Fred Wilson è tutt’oggi una delle personalità fondamentali che contribuiscono al movimento di presa di coscienza identitaria in ambito artistico-museale, compiendo un lavoro fondamentale in una società come quella contemporanea, che troppo spesso dà per completo ciò che le viene proposto.

 


FONTI

Maryland Historical Society

How Mining the Museum Changed the Art World– BmoreArt | Baltimore Contemporary Art, MAY 3, 2017

Pace Gallery

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