La simbologia del sacro nascosta nella natura

Da sempre l’uomo ha attribuito alla natura un senso religioso, visibile o nascosto che sia. E probabilmente per sempre sarà così: una coscienza osservante e fedele da cogliere dietro a ogni elemento appartenente al mondo in cui viviamo, una simbologia a volte chiara e tangibile, mentre altre velata e latente. Ma da cosa sono scaturiti tutti questi simboli?

Il cosmo è segno della creazione divina, si è formato per volontà degli dei, è uscito dalle loro mani. Sono proprio le divinità ad averlo non solo pensato, ma anche plasmato secondo la loro volontà e piacimento. Ecco come gli dei si mostrano a noi attraverso il mondo, tramite ciò che hanno ideato e costruito. La sua varietà e ricchezza ci riportano quindi a colui – o coloro – che ha creato la natura, al più alto autore e artefice del cosmo. Il mondo è opposto al caos. Questa è la prima distinzione a cui gli uomini hanno sempre fatto attenzione. Il primo ha una struttura, è dotato di un chiaro assetto. Ogni elemento naturale è un simbolo ordinato dietro al quale si cela il sacro. È un cosmo trasparente e dai confini ben delineati. Il caos è invece indeterminatezza, scompiglio, disordine, è tutto ciò che si trova al di fuori della mente di Dio. È esattamente l’opposto.

Il cosmo è contemporaneamente un organismo reale, vivo e sacro […] in cui ontofania e ierofania si incontrano”. La miracolosa presenza di un elemento divino si incrocia nel mondo e si rivela agli occhi umani. Attraverso le stesse strutture della natura il mortale riesce a cogliere la sacralità stessa di ciò che vede, tocca, respira.

Ma non si tratta di un uomo inconsapevole e disinformato. Dio ha provveduto anche a questo, ha pensato a come educarlo sia nel rapporto con la natura con cui viene direttamente in contatto, sia nella sua relazione con il cielo. Infinito, vasto e irraggiungibile il cielo è trascendente: sorpassando i limiti umani, si pone in una condizione al di fuori della realtà oggettiva e concreta a cui possiamo avere accesso. L’inaccessibilità è la sua caratteristica determinante. Non c’è logica né razionalità. “Il cielo esiste in maniera assoluta”: in quanto tale è infinito, eterno e potente, è assoluto per il proprio modo di essere. Così tutto ciò che è collegato al cielo è percepito come lontano e intangibile. Il mondo celeste stesso è costernato da figure e da luoghi impenetrabili.

I maori chiamano iho tutto ciò che è alto, elevato. Presso i selk’nam della Terra del Fuoco, Dio è l’unico abitatore del cielo e tutto ciò che gli concerne è sacro. Per i andamanesi puluga indica colui che ha dimora del cielo, il tuono è la sua voce, il vento il suo alito e l’uragano simbolo della sua ira. Olorun è Dio per gli yoruba. Num non è solo il cielo, ma anche Dio – perché il cielo lo abita – per la popolazione di Samode.

Ma c’è anche chi traduce la lontananza tra se stesso e Dio in impossibilità nel descriverlo. È tanto distante e sfuocato da far diventare il suo profilo ineffabile e inesprimibile. Sempre presente è l’idea dell’allontanamento della divinità rispetto al mondo terreno. Così il gruppo dei Bantù nell’Africa subsahariana sostiene l’indifferenza divina nei confronti dell’uomo: dopo averlo plasmato dalle sue mani non ne occupa né preoccupa più.

Vicino o lontano che sia Dio porta senza dubbio con sé un simbolismo sacro che trova espressione nella natura, così come essa è vista e vissuta dai mortali. “Nel cosmo si mantiene vivo il ricordo di Dio afferma Mircea Eliade. Dio ha creato il cosmo in tal modo con l’unico scopo di ricordargli che esiste, lo guarda dall’alto, lo guida e talvolta lo giudica. Quella della terra mater è sicuramente una delle immagini più potenti e rappresentative. Già negli Inni Omerici si canta la terra, madre universale, massima raffigurazione della vita. Fertilità e fecondità si incontrano e si esauriscono nella sua natura figurativa. L’uomo stesso nasce dalla terra, da lei prende vita e da lei viene nutrito.

L’elemento naturale sacro per eccellenza è la pietra. Immutabile, ferma e salda, rimane sempre inalterabile. Metafora assoluta dell’essenza divina, anch’essa non cambia mai, mai si trasforma. Forte e resistente la roccia è massimamente simbolica e rivelatrice. Mostra chiaramente all’uomo l’esistenza assoluta.

Anche il sole ospita una simbologia altrettanto potente e significativa: invariabile ma sempre in movimento. Non si modifica ma non si ferma mai, è eterno ma non immobile e inerte. Sono proprio queste due caratteristiche a renderlo simbolo di forza e potenza. Dualismo e polarità coincidono nella metafora del sole. Energia, vigore ed egemonia sono celati dietro la stella madre del sistema solare.

Non solo Dio, ma anche l’uomo si associa al sole. Ma non si tratta di un uomo qualunque bensì dell’eroe. Il semidio coraggioso e valoroso lotta duramente contro le tenebre fino a vincerle. La luce prevale non senza fatica sull’oscurità. Il modello ed esempio di vita tenace riesce sempre a uscire vincitore grazie anche all’aiuto celeste. Tutto riporta quindi al sacro e a Dio.

Un infelice epilogo spetta però a queste credenze. L’idea di un cosmo divino, di una natura sacra e di una volontà celeste dominante tendono a scomparire nel presente. L’attualità avanza cancellando man mano quella simbologia tipica delle popolazioni indigene, della mitologia classica e non solo. Oggi l’uomo è anche portato a considerare tali antichi visioni come ottusi e infantili.

L’avanzare del tempo ha portato con sé una serie vastissima di innovazioni, che spinge il mortale a vedere con un duro occhio critico le stolte credenze antiche. Ma d’altra parte non dovrebbe dimenticare che sono proprio queste idee religiose di sacro e di profano a costituire la base di molte culture sia orientali che occidentali.

Senza questa straordinaria e interessante simbologia della natura forse l’uomo avrebbe dei valori, delle concezioni di mondo diversi. Il patrimonio di conoscenze, il bagaglio di nozioni ed esperienze sarebbero altri. Ma chi è l’uomo per giudicare? Non è forse uno dei tanti modi in cui la realtà divina si manifesta?

Fonti

“Il sacro e il profano”, Mircea Eliade, Boringheri, 1967

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