Reporter birmani colpevoli di aver difeso i rohingya

Due reporter birmani dell’agenzia di stampa britannica Reuters, Wa Lone e Kiaw Soe Oo, sono stati condannati il 3 settembre a sette anni di carcere per aver denunciato i soprusi dell’esercito contro i rohingya.

Tutto è iniziato il 12 dicembre 2017 quando Wa Lone riceve una chiamata da un caporale dell’ottavo battaglione delle forze di sicurezza, che esorta il giornalista a raggiungerlo in caserma; il direttore gli consiglia di andare insieme al collega Kyaw Soe Oo. Dopo l’incontro, i due si recano con lui in una birreria vicina. Prima di uscire, il caporale dà loro una copia del quotidiano governativo, in cui erano stati arrotolati documenti segreti. Presto i due giornalisti sono circondati da poliziotti in borghese e accusati di aver violato il segreto di stato, vengono dunque arrestati.

Ma qual è la colpa di questi giovani reporter?

Nell’ottobre del 2017 Wa Lone si era recato con un collega a Sittwe, capitale della regione Rakhine, lì avevano incontrato Kyaw Soe Oo: l’obiettivo comune era di denunciare ciò che stava succedendo contro le minoranze rohingya. Decisero così di addentrarsi nella regione accompagnati da un autista che, con una certa punta di disprezzo, parlò loro di dieci uomini uccisi nei pressi del villaggio di Inn Dine, seppelliti in una fossa comune. I due reporter vollero subito raggiungere la zona della fossa. Nel villaggio trovarono un uomo che diede loro una foto che mostrava dieci rohingya in ginocchio con una quindicina di uomini dietro di loro armati di fucili, uno dei quali aveva un cappello con la visiera all’indietro e sul calcio del fucile il numero 8 in birmano, indizio che uno di loro apparteneva all’ottavo battaglione della polizia. Percorrendo un sentiero, ricavato da poco tagliando dei rami, scoprirono la fossa: era poco profonda, tanto che si vedevano ancora le ossa, alcune sparse, altre sembravano rosicchiate dai cani. In seguito Wa Lone trovò un’altra fotografia, la quale mostrava i dieci rohingya già uccisi. Si trattava di materiale molto pericoloso: la foto degli uomini prima e dopo l’uccisione, con la prova che c’entrava anche la polizia di stato. Iniziarono così ad indagare sull’omicidio di questi dieci uomini durante un’operazione militare nello stato del Rakhine. Quando furono arrestati, non avevano ancora finito di scrivere il reportage, che avrebbero completato altri due colleghi del Reuters nei due mesi successivi.

Prima della condanna definitiva un ufficiale avrebbe proposto a Wa Lone un compromesso, se la Reuters non avesse pubblicato il servizio, ma lui ha rifiutato. Usando un termine offensivo per indicare gli abitanti dell’Asia meridionale, in particolare i musulmani, pare che gli abbia chiesto:

“Siete entrambi buddisti, perché vi occupate dei kalar, in un momento come questo?”

Kyaw Soe Oo ha ricevuto le stesse pressioni, è stato anche costretto a stare tre ore in ginocchio sul pavimento durante l’interrogatorio, per non aver confessato prima il possesso delle fotografie. Anche se tutto ciò è stato negato dagli agenti durante i numerosi processi che seguirono.

Wa Lone, 32 anni, è un uomo paffuto, con i baffi e lo sguardo pacifico. È cresciuto in una capanna di legno in un piccolo villaggio circondato da risaie, in una famiglia di contadini poveri. Wa Lone non ha mai sopportato questa condizione, così nel 2004 partì per Yangon, dove si cimentò in vari lavori, tra cui il saldatore e lo scaricatore di porto. Insieme a degli amici ha iniziato a frequentare la biblioteca di un monastero lì vicino, dove trovò libri in inglese. Hanno così iniziato a frequentare corsi di inglese, a leggere i giornali e a parlare di democrazia. Tornò nel suo villaggio deciso a fare di più per il suo Paese, così iniziò a lavorare per una serie di giornali locali fino alla Reuters. Non voleva tuttavia farsi arrestare o sfidare le autorità, per non mettere in pericolo la sua famiglia.

Kyaw Soe Oo, 27 anni, è un uomo magro, con le spalle quadrate, gli zigomi alti e lo sguardo tagliente. La sua famiglia possedeva imbarcazioni e mezzi per il trasporto merci. Da bambino dava una mano nei negozi a spolverare i libri e in cambio gli veniva consentito di leggerli, così lesse Kafka, Camus, Sartre. Cresciuto a Sittwe, nel Rakhine, lui, buddista, era circondato da musulmani, ma non comprese mai perché i musulmani fossero maltrattati, così decise di reagire. Ha anche ammesso:

“A essere sincero, avrei preferito fare l’agente immobiliare che il giornalista. Ma se non risolviamo questo problema, mia figlia ne subirà le conseguenze”.

Entrambi sono reporter determinati a denunciare le ingiustizie del loro Paese e ad affermare il sacrosanto diritto della libertà di stampa. Entrambi, come altri giovani, hanno respirato un’aria nuova di democrazia e libertà quando, dopo anni di governi militari e sanguinosi conflitti etnici, nel 2015 la premio Nobel Aung San Suu Kyi stravinse le elezioni con il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld). Cinque anni prima Suu Kyi era stata liberata dopo quindici anni di arresti domiciliari, a cui era stata condannata dai militari poiché si batteva contro la violazione dei diritti civili.

Ciononostante, l’odio nei confronti delle minoranze del Paese, soprattutto musulmane, non è mai finito. Persistono le angherie e le vessazioni da parte di militari nello stato in cui vivevano i Rohingya, il Rakhine, al punto che nel 2017 sono stati costretti a fuggire in massa nel Bangladesh (circa 700 mila persone), dove si erano già stanziati circa 300 mila rohingya nel 2012, in seguito ad una precedente serie di violenze. Questa fuga ha finalmente risvegliato la sensibilità mondiale, che prima conosceva poco o nulla sulla condizione dei rohingya. In Bangladesh vivono in campi profughi considerati i più grandi e affollati del pianeta, in situazioni di degrado assoluto tra malnutrizione, mancanza di igiene e malattie che ne derivano. L’Onu ha accusato l’esercito birmano di genocidio. Ma Aung San Suu Kyi non ha mai ammesso queste violenze, proprio per la sua indifferenza è stata di recente criticata, anche dall’Onu. Alcuni esperti di crimini di stato dell’Università di Londra Queen Mary che hanno segnalato che Suu Kyi:

“Non vuole neanche ammettere, figuriamoci provare a bloccare, la conclamata campagna di stupri, omicidi e distruzione perpetrata da parte dell’esercito ai danni dei villaggi Rohingya”.

La situazione è più difficile di quanto sembri, nonostante lei sia il Consigliere di Stato, non detiene tutto il potere: i militari controllano un quarto dei seggi in Parlamento, i Ministeri della Difesa e degli Interni (importantissimi per la questione rohingya). Si aggiunge che se Suu Kyi si opponesse troppo, i militari potrebbero avvalersi del diritto, previsto dalla Costituzione, di ribaltare il governo in carica con un golpe. Per ultimo, ma non di meno conto, occorre ricordare che Suu Kyi è figlia di un importantissimo generale birmano, lo stesso che trattò dell’indipendenza con i colonialisti inglesi convocando tutti i rappresentanti delle minoranze etniche tranne quella Rohingya, impedendo loro di essere riconosciuti come minoranza etnica e quindi di avere la cittadinanza. Contrastarlo per lei vorrebbe dire tradire la memoria del genitore come Padre della Patria.

Da cosa nasce questo astio?

Una triplice accusa pesa sui Rohingya: per prima quella di tradimento, nella Seconda Guerra Mondiale si erano alleati agli inglesi, quando tutti i birmani si erano schierati con i giapponesi per odio nei confronti dei colonialisti inglesi; segue la differenza religiosa, dal momento che sono di religione musulmana in una regione buddista; infine, la ragione più concreta è che il Rakhine ha un sottosuolo ricco di petrolio, che attira.

Ed è così che i due giornalisti si sono trovati schiacciati tra l’omertà del potere civile e il pugno forte del potere militare. In uno dei numerosi processi, il caporale che aveva teso loro la trappola ha testimoniato che il 12 dicembre era stato Wa Lone a chiamarlo e che poi era andato da solo alla birreria. Allo stesso processo un capitano dell’ottavo battaglione ha invece testimoniato che la polizia voleva incastrare il reporter: ha confessato che il generale aveva minacciato gli agenti i quali, se non avessero fermato Wa Lone, sarebbero finiti in prigione. Questa dichiarzione è costata al capitano un anno di detenzione in carcere per violazione delle regole disciplinari del suo battaglione.

Sono stati condannati per aver avuto il coraggio di rivendicare il diritto di libertà di stampa, ma se per i benpensanti occidentali questo è inaccettabile, per i loro connazionali si tratta di un vero e  proprio tradimento. Ne sono la dimostrazione i commenti di insulti pubblicati sulla pagina Facebook Liberate Wa Lone e Kyaw Soe Oo. La moglie di Wa Lone stessa era contraria alla pubblicazione dell’articolo, ma a Wa Lone non importava, e ha concordato con l’avvocato che fosse pubblicato. Appena l’articolo uscì, la moglie aveva confessato:

“Ho deciso di non andare più a trovare Wa Lone. Pensavo che gli importasse solo di sé”.

Il 10 aprile i militari hanno annunciato che dieci soldati erano stati condannati a dieci anni di lavori forzati per aver partecipato al massacro di Inn Din, forse per placare l’indignazione internazionale. L’indomani i due giornalisti vennero convocati di nuovo in tribunale per la richiesta della difesa di lasciar cadere le accuse, illudendosi che la condanna dei colpevoli del massacro fosse un segno positivo per la loro liberazione. Era il giorno del compleanno di Wa Lone, la moglie, incinta di cinque mesi, nonostante tutto, lo attendeva lì e gli aveva preparato una torta con le candeline, sulle quali ha avuto appena il tempo di soffiare sopra. Uscendo dall’aula Wa Lone ha gridato alle telecamere:

“Vorrei chiedere al governo: dov’è la verità? Dove sono la verità e la giustizia? Dove sono la democrazia e la libertà?”

I due giornalisti sono stati riportati in carcere.

FONTI:
  • Silenzio stampa in Birmania, Tom Lasseter, Reuters, Regno Unito (Internazionale 1/8 novembre 2018)
  • Inferno Rohingya, Marco Restelli (L’Espresso 21/10/2018)
  • treccani.it

 

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