Il cavallo che smascherò le ipocrisie umane: Cholstomér di Tolstoj

Nell’opera di Lev Tolstoj, punto di riferimento assieme a Puškin della letteratura russa, Cholstomér, storia di un cavallo (1886) rappresenta un unicum. Dmitrij Petrovič Mirskij nel manuale Storia della letteratura russa, definisce il lungo racconto «uno degli scritti tolstojani più curiosi e caratteristici».

La storia si ispira liberamente alle vicende di Mužik I, cavallo realmente esistito e molto conosciuto in epoca zarista. Durante le pagine introduttive, tramite il classico narratore onnisciente, Tolstoj descrive con minuziosità il vecchio Cholstomér, un castrone ormai fisicamente debole e ammalato, utilizzato come bestia da soma nell’allevamento dove è stato da poco trasferito. All’infelice condizione si aggiunge la disgrazia di essere costantemente deriso dagli altri giovani puledri di razza fino a quando Cholstomér, un tempo imponente destriero chiamato Mužik I, non incomincia a raccontare il proprio glorioso passato ai compagni, e tramite l’espediente meta-letterario, al lettore. In una commovente analessi è lo stesso Cholstomér a ripercorrere la propria vita e a spiegare il motivo di un declino dovuto esclusivamente alla meschinità dell’uomo.

L’empatia che si crea tra Cholstomér, narratore omodiegetico per gran parte del racconto, e il lettore sorge spontanea permettendo a quest’ultimo di percepire con molta facilità il senso di dolore provato dal cavallo. Tolstoj ribalta così la prospettiva del racconto e il lettore si vede costretto a realizzare una verità tanto semplice che l’uomo sembra essersene dimenticato: gli animali sono esseri viventi, capaci di provare emozioni ed esprimersi, anche se con un linguaggio diverso da quello umano. Ciò che all’uomo appare scontato poiché convenzionale per Cholstomér è invece una serie di ingiustizie.

Lo stile narrativo di Tolstoj era percepito lontano da una qualsiasi canonicità e rappresentava una novità per l’epoca. Tale caratteristica ha reso la povest’, e cioè una narrazione prosastica che nel corso del Settecento assume il significato di forma ibrida tra romanzo e racconto breve, particolarmente studiata da critici, per esempio nel famoso saggio L’arte come procedimento del formalista Viktor Šklovskij.

In Cholstomér Školvskij individua «l’effetto di straniamento in Tolstoj»; esso consiste nell’utilizzare «nelle descrizioni dell’oggetto non le denominazioni abituali delle sue parti bensì quelle parti corrispondenti in altri oggetti». Ne è un perfetto esempio il discorso fatto da Cholstomér, alter-ego dell’autore, durante la fase centrale del racconto, che ne rappresenta il suo cuore:

«E perciò, senza parlare di altre nostre superiorità rispetto agli uomini, già solo per questo siamo autorizzati a dire che nella scala degli esseri viventi stiamo più in alto degli uomini: l’attività degli uomini – almeno di quelli con cui sono venuto a contatto – è guidata dalle parole, la nostra invece dai fatti. Ed ecco, questo diritto di dire di me il mio cavallo l’aveva avuto il capostalliere e per questo aveva frustato lo stalliere. Questa scoperta mi colpì molto e insieme a quei pensieri e opinioni che aveva suscitato negli uomini il mio manto pezzato, e alla malinconia, causata in me dal cambiamento di mia madre, mi fece diventare quel castrone serio e profondo che sono».

Tolstoj adopera il gioco tra fabula e intreccio, ovvero l’analessi dell’anziano cavallo del suo allevamento, non con lo scopo di intrattenere il pubblico ma per smascherare le assurdità e le ipocrisie della vita contemporanea dandone un aspro giudizio, caratteristica tipica nella fase tarda della produzione tolstojana. Non è un caso che il lungo racconto sia stato rielaborato per oltre vent’anni e pubblicato soltanto dopo la conversione, quando la ricerca di Tolstoj si spostò dall’indagine psicologica a quella morale.

Già prima di Cholstomér la presenza di un animale protagonista non era una novità nell’ambito della produzione letteraria russa, in particolare nel genere delle novelle e, prima ancora, nella tradizione folcloristica, ben rappresentata da Aleksandr Nikolaevic Afanas’ev (1826 – 1871). Tipico della fiaba è infatti l’umanizzazione degli animali, cosa del tutto distante dai canoni del realismo ottocentesco. Proprio Tolstoj, l’autore di romanzi realisti per antonomasia (Guerra e pace e Anna Karenina) riprese in un certo senso questa tradizione rinnovandola. Nella fiaba fabula e intreccio solitamente seguono un andamento lineare mentre Tolstoj dà molta importanza al flashback; è tramite questa tecnica che riesce a focalizzarsi su ciò che gli stava davvero a cuore nel romanzo: l’indagine (e la condanna, a dire la verità) morale.

 


FONTI
D. P. Mirskij, Storia della letteratura russa, Garzanti, Milano, 1998. p. 217.
L. Tolstoj, Tutti i racconti, note a cura di I. Sibaldi, Mondadori, Milano, 2005.
V. Sklovskij, L’arte come procedimento in I formalisti russi a cura di T. Todorov, Torino, Einaudi, 1968 p. 83.


 

 

 

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