Processo alla gioventù

Viene definito effetto Droste quel processo di iterazione di un’immagine in se stessa – per un numero presumibilmente infinito di volte – via via rimpicciolendosi. Analogamente si può osservare come, entro realtà sempre più piccole, si ripetono dinamiche identiche, in una progressione all’infinito del medesimo schema. Movimenti contrari si contendono da sempre la Natura così come la storia umana. Nel cosmo è la lotta fra espansione e gravità; nelle epoche storiche, e parimenti sul piano personale, i contrasti si disputano perlopiù tra i fuochi del compiacimento e dell’autoaccusa. Nel clima di complessivo disagio che connota la fase presente del XXI secolo, il confronto tra generazioni susseguitesi senza soluzione di continuità si configura più similmente a un processo che a un dialogo. Se, però, ogni forza in Natura ha una propria ragion d’essere, ogni parte di una disputa ha ragioni da perorare in tribunale.

Portando in scena, nel 1952, il capolavoro Aspettando Godot, Samuel Beckett rivelò verità con le quali non era semplice fare i conti. Il merito che vale tutt’oggi all’autore della piéce una tale acclamazione è la messa in evidenza che proprio la mancanza di senso è la condizione costitutiva dell’esistere. Godot, il fantomatico personaggio eponimo dell’opera, la cui presenza è sempre annunciata e continuamente rinviata, obbliga i protagonisti, Vladimiro ed Estragone, a un’attesa vuota e inutile. Solamente il suo arrivo potrebbe finalmente disincagliare la situazione; ma il senso – inteso sia come definizione che come direzione – non lo si ottiene semplicemente aspettandolo.

Nel contesto di crisi che soffoca l’Occidente nel nuovo millennio, le arti sembrano concorrere per replicare il medesimo vuoto che accoglie i personaggi beckettiani. Ragion per cui la motivazione dell’impennata subìta dalla fama di autori come Cicerone e Seneca è presto svelata: ricerca della felicità, legittimità dell’ozio e priorità dell’autorealizzazione come riscatto dalla brevità della vita costituiscono la materia propria dello Stoicismo nonché i temi che contrastano all’interno del panorama odierno. Il secondo dopoguerra colse l’uomo nella realtà dei suoi disagi più profondi che, dopo gli orrori inediti che sconvolsero ogni angolo del mondo, non era più possibile mascherare o tuttalpiù negare. Ad animare il Terzo millennio è una schermaglia che vede confrontarsi due generazioni successive.

La corte si riunisce.

Primo capo d’accusa: quietismo.

Controaccusa: bisogna anzitutto puntualizzare che il quietismo è l’approdo immediato dei giovani scoraggiati da un presente ormai saturo e da prospettive future povere di promesse. Il biasimo e il rimprovero riservati alla generazione nata a cavallo dei due millenni non fa che alimentare un generale complesso d’inferiorità rispetto ai modelli passati e genera di conseguenza un clima di passività. Diviene dunque evidente il motivo del cinismo e del disincanto che caratterizzano l’approccio dei giovani al quotidiano.

Obiezione: La filosofia come apologia.

Non è difficile giustificare la fortuna incontrata negli ultimi anni anche dall’Esistenzialismo. Quest’ultimo (fiorito non per nulla parallelamente allo scoppio della Seconda guerra mondiale) è oggetto di un drastico travisamento che Jean Paul Sartre, uno dei massimi esponenti dell’indirizzo filosofico, paventò apertamente, e al quale egli stesso è tutt’oggi soggetto. Il filosofo francese avvertì infatti il rischio che il suo pensiero potesse prestarsi a una chiave di lettura fuorviante. L’interpretazione falsata dei contenuti dell’esistenzialismo (quelli più facili da divulgare) ne ha decretato, oggi, la banalizzazione: l’esercizio di vita attiva viene inteso come strumento di autoassoluzione dalle proprie inadempienze, come viatico per rinviare la concretizzazione. L’Esistenzialismo così inteso equivale, in sintesi, ad una anti-filosofia che non invita ad ampliare i propri orizzonti né a tematizzare la propria presenza nel mondo, bensì diviene una macerazione nell’individualità, solipsismo ostentato che tenta di mascherare l’autocommiserazione.

Il pensiero di Jean Paul Sartre (1905-1980), insieme a quello di Martin Heidegger, rappresentò la punta di diamante dell’Esistenzialismo.

L’umanismo propugnato da Sartre si muove, dopotutto, lungo la scia dell’umanesimo di Pico della Mirandola, il quale per primo asserì che l’essenza dell’umano consiste nella mancanza di un’essenza; l’uomo può (deve) determinarsi da sé. La soggettività non può essere statica, non può limitarsi a essere, deve crearsi. Nello specifico, Sartre obietta l’illusione, inaugurata da Kierkegaard, che l’astensione sia il mezzo adeguato per elevarsi al di sopra delle alternative: non-scegliere è pur sempre una scelta, oltretutto non risolutiva.
Quello che Sartre definisce essere-per-sé è l’anelito, l’essere ma, al contempo, la stasi, il vuoto. Alla radice del fraintendimento del messaggio sartriano è un giudizio erroneo che legge nell’esistenzialismo un invito all’inerzia.
Parte della responsabilità è da imputarsi alla modalità di relazione col mondo esterno consentita all’individuo dall’intromissione dei dispositivi tecnologici. Il contatto immediato (pur nel distacco) con il mondo oltre ogni distanza spazio-temporale incoraggia un movimento contrario, un fenomeno di regressione, cioè di esplorazione delle aree periferiche dell’inconscio. La psicologia e le arti (in special modo la letteratura e il cinema) difendono invero il primato dell’individualità e dell’introspezione creando sempre più spesso una sorta di “area di sospensione” dell’essere, in cui è possibile sottrarsi alla concretezza della vita e vegetare nella saggezza spicciola e gualcita divenuta luogo comune.

Controaccusa: la lettura degli autori sopra citati, sotto la veste di un intrattenimento per ingannare l’attesa di se stessi, dichiara un conflitto interiore fra la speranza, il timore e la rassegnazione. L’Occidente vive oggi nella lacerazione tra un sistema di valori obsoleto e la protensione verso un orizzonte ancora indefinito. Numerosi sono i movimenti contrari che definiscono la condizione di crisi generale: l’intolleranza ostacola l’espansione culturale; nel fenomeno stesso della globalizzazione convivono curiosità e sospetto per l’esotico; le incertezze cagionate dalla crisi economica obbligano a progettare il proprio futuro in funzione non dell’ambizione, ma della necessità. Un simile contesto genera non poche insicurezze. La generazione passata assiste alla delusione dei progetti vagheggiati a suo tempo, mentre i giovani sopportano oggi il peso del senso di colpa.

Secondo capo d’accusa: apatia ed egocentrismo.

L’incalzante sviluppo tecnologico ha deformato la percezione dello spazio e del tempo e diffuso la convinzione della gratuità di tutto. Da qui deriva la smania di un appagamento immediato, e con poca fatica, dei propri desideri e bisogni. Curiosità, pazienza, semplicità, capacità di stupirsi e di emozionarsi sembrano destinate a scomparire assieme alle vecchie generazioni. Aspetto, quest’ultimo, già pronosticato da Alexis de Toqueville:

<<Vedo una folla sterminata di uomini simili e eguali, che si girano senza tregua su se stessi per procurarsi piaceri piccoli e banali di cui si colmano l’animo. Ciascuno di loro ripiegato su se stesso è come estraneo al destino di tutti gli altri, i suoi figli e i suoi amici privati costituiscono per lui tutta la specie umana. Per quanto concerne i suoi concittadini egli vive accanto a loro ma non li vede.>>

Gli fece eco, a metà del secolo scorso, Arnold Gehlen:

<<Mancano oggi in un pubblico molto vasto gli organi ricettivi per le sfumature, i sottili riferimenti, le allusioni, per l’espressività del non-detto, per le finezze stilistiche e le distinzioni selettive dei concetti con tutte le loro sfumature; ogni cosa deve essere presentata in forma spiccatissima e bene impressa, come uscita da uno stampo>>.

Il distanziamento dalla sfera emozionale conduce ad aprirsi a pratiche estreme che riducono l’esistenza a pretesto per una sfida sfacciata del pericolo, nel tentativo, attraverso un affronto continuo (e rischioso) dei propri limiti, di recuperare un rapporto totale e autentico con la propria presenza. Desiderio di completamento peraltro malcelato dall’individualismo che, contraddittoriamente, si regge sulla spasmodica ricerca di consensi. La moda del selfie (marchiata come “autoerotismo dell’ego”) ha parallelamente inaugurato un autentico culto iconografico (di cui negli anni a venire, se ancora esisterà la Storia dell’Arte, si potranno persino individuare i tratti stilistici) che offre la possibilità di mimetizzarsi nell’artificio di un intellettualismo di facciata.

La difesa non ha obiezioni.

Terzo capo d’accusa: irriverenza.
Si riscontrano casi sempre più frequenti di sfrontata impertinenza da parte dei giovani nei riguardi dei propri simili, a prescindere da quale ne sia l’età.

Controaccusa: La condotta dei giovani non è giustificabile, ma anch’essa ha una sua ragion d’essere. L’affidamento sempre più fiducioso alla pedagogia è giustificato dal desiderio dei genitori del nuovo millennio di applicare un concetto di autorità genitoriale differente da quello che essi medesimi hanno esperito. Un modello educativo presuppone oggi che il bambino sia un complesso di fragilità, che vengono approcciate con una cautela spesso eccessiva. Il ruolo del genitore – percepito come missione finalizzata a ridurre (se non a debellare) le difficoltà nella vita della prole – fuoriesce per l’appunto dal binomio autorità/autorevolezza e, senza conoscere mezze misure, degenera nell’indifferenza o nella sottomissione. Questo disequilibrio pregiudica la relazione dell’individuo con il mondo, segnato dall’incapacità di percepire l’autorità e di rapportarsi coi propri simili con rispetto.

I tempi non sono ancora maturi per permettere di andare oltre la semplice constatazione dei fatti. Gli imputati avanzano ragioni ugualmente valide, non è semplice pronunciare un verdetto.

La Corte si ritira per deliberare. L’udienza è tolta.

FONTI

S. Beckett – Aspettando Godot, Einaudi, 1964

S.Beckett – Teatro, Einaudi, 2014

J.P. Sartre – L’esistenzialismo è un umanismo, Armando Editore, 2000

A. Gehlen – L’uomo nell’éra della tecnica, Armando Editore, 2003

 

 

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