Robot mondo del lavoro

Robot e mondo del lavoro: apocalittici o integrati?

Un robot ha colpito l’opinione pubblica milanese: è Reem, presentato durante il FestivalFuturo di Altroconsumo. Il 3 Novembre un gran numero di curiosi ha voluto conoscere questo robot che si aggirava per le strade di Milano interagendo con le persone, scherzandoci insieme e parlandoci, e mettendosi perfino ad abbracciarle. Ma, passato presto lo stupore, nei giorni successivi è tornata ad avvertirsi una certa inquietudine per questi umanoidi che rischiano di diventare quasi dei veri e propri esseri umani. Se per alcuni ambiti, come quello affettivo e emozionale, è ancora troppo presto per immaginarsi robot al livello degli uomini, per quanto riguarda il mondo del lavoro invece la possibilità che i robot prendano il posto delle persone in carne ed ossa appare sempre più una realtà ormai imminente.

Una ricerca del Pew Research Center tratteggia una scenario in cui i robot e, più in generale, l’intelligenza artificiale permeeranno ogni aspetto della nostra vita entro il 2025. Del resto secondo un approfondito studio sulla realtà USA (Technology at work, the future of innovation and employment) il 47% delle professioni è destinata ad essere travolta dai processi di automatizzazione. L’economista Jeremy Rifkin arriva addirittura a ipotizzare che entro il 2050 l’intero sistema economico mondiale potrà reggersi occupando soltanto il 5% della popolazione adulta, lasciando quindi il restante 95% nella più totale disoccupazione. Anche le previsioni del World Economic Forum non sono confortanti: nei prossimi anni per colpa dell’automatizzazione tecnologica si stima una perdita di oltre 5 milioni di posti di lavoro per le 15 economie più importanti del mondo. I dati OCSE dipingono uno scenario leggermente meno fosco, ma comunque sempre preoccupante.

Eppure questi dati non sono interpretati allo stesso modo dagli esperti: non tutti infatti vedono in queste cifre un’imminente apocalisse; per alcuni anzi rappresentano un’enorme opportunità. A parere di molti si può parlare di quarta rivoluzione industriale, cioè di un nuovo salto qualitativo e quantitativo nella produzione industriale garantito dall’automatizzazione tecnologica e dalle nuove possibilità messe in campo dall’intelligenza artificiale. Jim Bessen, docente di Economia all’Università di Boston, paragona l’imminente rivoluzione robotica nel mondo del lavoro all’introduzione degli sportelli automatici in molte realtà commerciali e bancarie:

Introdotti negli anni settanta, il numero di sportelli bancomat tra il 1995 e il 2010 è passato da centomila a 400 mila. Gestire un bancomat è più economico che pagare lo stipendio di un cassiere, perciò a mano a mano che gli sportelli bancomat diventavano più numerosi dei cassieri, i costi delle filiali di banca si abbassavano. Poiché la gestione di una filiale di banca diventava sempre meno costosa, sono state aperte nuove filiali con un incremento del 40 per cento tra il 1988 e il 2004. Questo significa che il numero di cassieri assunti è aumentato. I bancomat non hanno provocato la disoccupazione dei cassieri, anzi. Tra il 1980 e il 2010 i posti di lavoro per i cassieri di banca negli Stati Uniti sono in realtà aumentati. Questa crescita di posti di lavoro è stata possibile grazie all’aumento di produttività dovuto all’automazione.

Non tutti però concordano con uno scenario tanto idilliaco:

Stiamo assistendo a qualcosa di radicalmente diverso dal passato e, a mio parere, i timori questa volta sono fondati”, spiega Martin Ford, autore de Il futuro senza lavoro (Il Saggiatore). “L’accelerazione dell’automazione procede a ritmi esponenziali, che la società non è preparata per affrontare. Inoltre, oggi siamo alle prese con software e robot, che, grazie al machine learning, stanno iniziando a pensare e sono in grado di prendere decisioni. Finché la tecnologia creava strumenti che aiutavano i lavoratori, i guadagni crescevano assieme alla produttività” spiega ancora Ford. “Negli ultimi decenni, però, la tecnologia ha sminuito il valore dei lavoratori, ed è per questo che le due linee divergono sempre di più.

Di contro l’International Federation of Robotics fa notare che la robotica sta creando milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo: di questo ne è esempio Amazon, che da semplice sito Web che minacciava di far crollare il sistema della distribuzione commerciale è diventato uno dei più importanti datori di lavoro proprio in quel settore. Ma secondo ricorrenti accuse l’ha fatto trasformando in un certo senso gli uomini in robot.

Non è mai facile valutare delle previsioni: nel futuro ogni scenario può essere potenzialmente plausibile. Una cosa però è certa: per non farsi trovare impreparati occorre iniziare a fare opportune riflessioni politiche, sociali e educative. Separare il reddito dalla prestazione lavorativa (come avverrebbe in un mercato del lavoro completamente affidato ai robot) sarebbe una rivoluzione epocale le cui conseguenze solo a un occhio distratto potrebbero essere riassunte in un “finalmente non c’è più bisogno di lavorare”. Società che non si fondavano sul lavoro sono già esistite: ne sono un ottimo esempio Grecia e Roma antica, le cui classi dominanti facevano vanto, nonché costruivano la propria supremazia, sul disprezzo di qualsiasi idea di lavoro. Ritornare a una simile concezione sociale non sembra un grande progresso. Eppure essa già trapela sotto traccia in tutti quegli esperti che descrivono come sacrificabile senza remore ogni forma di lavoro “a bassa qualifica, ripetitivo e routinario”, una perifrasi in cui si fa rientrare in realtà quasi ogni forma di lavoro manuale. Tutti d’ora in poi, è la ricetta di molti, dovranno essere costretti dalla scuola ad avere passione per la creatività, originalità e profondità culturale che i robot non potranno mai avere: in questo non si vede in controluce un preoccupante disconoscimento di umanità per chi invece trova una straordinaria forma di realizzazione umana nella manualità piuttosto che nell’intellettualità?

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