La verità sugli antidepressivi

Qualcosa non funziona. Secondo i dati OMS, tra il 2005 e il 2015, il tasso di depressione diagnosticate è aumentato del 18,4%, per un totale di 332 milioni di persone su scala mondiale che soffrono di questo disturbo (circa il 5% della popolazione mondiale). La depressione è così divenuta la prima causa al mondo di disabilità. La diffusione sempre maggiore che la depressione e i disturbi d’ansia sembrano avere, ha portato l’OMS a dedicare la giornata mondiale della salute nel 2015 proprio a quelli che vengono chiamati common mental disorders.
Questi dati possono certamente essere in parte giustificati dall’aumento della popolazione avvenuto in quei dieci anni, ma portano anche a chiederci se i nostri approcci terapeutici funzionino davvero nel ridurne gli effetti spesso drammatici (788 mila morti suicidi a causa della depressione). Domanda che risuona ancora più forte nell’ambiente sanitario dopo che alcuni studi e ricerche hanno messo in dubbio l’efficacia dell’approccio terapeutico più diffuso contro questa malattia: i farmaci antidepressivi.

E’ emerso che questi farmaci possano essere efficaci nell’alleviare i sintomi solamente nei casi gravi, ma non sembrano avere maggiori effetti benefici di un placebo in situazioni di lieve o media gravità. In più è probabile che gli studi che sono stati condotti fino a poco tempo fa abbiano sovrastimato il numero di persone che guariscono dalla depressione grazie a questi farmaci. Le grandi case farmaceutiche prima di poter mettere un loro prodotto in commercio devono condurre delle sperimentazione cliniche e esporre i risultati alla FDA (Food and Drugs Administartion), organo federale americano con l’incarico di autorizzare o meno farmaci, prodotti agricoli o alimentari. Gli studi sugli antidepressivi attuati tra il 1987 e il 2004, che furono presentati alla FDA, erano solamente per il 51% positivi (ossia che provavano l’efficacia di questi farmaci) e furono pubblicati tutti, tranne uno. Del restante 49% di studi negativi ne furono pubblicati meno della metà e anche in questo gruppo i lavori pubblicati presentavano i propri risultati come positivi, quando in realtà erano giudicati dalla FDA neutri o negativi.

Odorando puzza di truffa si decise di fare un’altra serie di test ad ampio spettro il cui insieme prende il nome di STAR-D, dove furono esaminate 3671 persone provenienti da 41 contesti diversi. Ciò che gli esaminatori poterono osservare fu che solo in un terzo dei soggetti trattati con citolopram si osservò una guarigione momentanea dai sintomi. Fra i soggetti che accettarono di sottoporsi a un secondo trattamento con un altro farmaco, un 30,6% rispose bene al farmaco. Dati per cui vale molto poco la pena di essere euforici, contando anche il fatto che fra le persone “guarite”dai farmaci molte ricaddero, in seguito, in depressione.

Detto questo non significa che i farmaci non possano essere d’aiuto, diversi studi hanno evidenziato che gli antidepressivi riducono il rischio di suicidio di tre o quattro volte e di come una psicoterapia sia più efficace quando affiancata dai farmaci. Però ci mette di fronte all’evidenza che un secolo di ricerca e terapia contro questo male non ci ha portato a una condivisa teoria sulle cause che lo generino e, di conseguenza, sulla terapia più adatta a guarirlo.

Forse perchè parlare di depressione è più utile a renderci le idee confuse piuttosto che il contrario. Cosa intendiamo quando diciamo depressione, disturbo d’ansia, anoressia, bulimia? Stiamo descrivendo quelle che ci hanno convinto essere malattie con nomi che richiamano a un insieme di sintomi diversi per ogni disturbo, giusto? Ma l’idea che ad ogni malattia corrisponde una precisa causa e quindi una precisa terapia è pressochè del tutto illusoria e non si rifà alla realtà concreta. Questo è un limite enorme del nostro sistema di categorizzazione tradizionale del disturbo psicologico, derivante dalla convinzione che a un dato problema corrisponde una data soluzione. La psiche umana sembra più complicata di così, e sottolineare i limiti di un sistema precedente richiama sempre la responsabilità di fare ciò che si può per cambiarlo, questo è il compito e l’obbiettivo di quella che è chiamata psicologia di terza generazione.


FONTI

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Psicologia clinica-Ann M. Kring, Sheri L. Johnson, Gerald C. Davison John M. Neale/ Edizione Zanichelli

CREDITS

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