Cesare Pavese: suicidio d’amore?

È il 26 agosto del 1950: è un’estate afosa a Torino. Non c’è amico che risponda alle telefonate di Cesare Pavese, per passeggiare, fumare, anche in silenzio. Lo scrittore si trascina come un animale ferito in una camera d’albergo. Inghiotte il contenuto di numerose cartine di sonnifero: come una commessa delusa in amore, come uno dei suoi personaggi, Rosetta, che “si era uccisa senza motivo, […]. Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano […]”.

È il 26 agosto del 1950: non c’è nessuno in quell’estate afosa a ridestare Pavese alla vita. Così moriva lo scrittore, dopo aver tracciato sulla copertina dei Dialoghi con Leucò: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. A metà tra una preghiera disperata, ma sempre pudica, e un’intimazione, distante e seria, è stato, più di ogni altra cosa, un avvertimento ignorato.

La stampa non poteva e non doveva tacere, ma presto il fatto di cronaca si sovrappone al fatto umano. La fine tragica di un’esistenza rassodata da una ricca attività di scrittore e da una continua sorveglianza di intellettuale: sotto i riflettori finiva quanto, per la natura schiva di Pavese, dovette ripugnargli.

Ad ogni passo le ipotesi si moltiplicavano: il movente politico, quello psichico, il movente letterario. Ma l’immagine che con più fortuna è stata restituita al pubblico è quella del Pavese romantico suicida d’amore. Romantico, ma a tratti delirante e deprimente; un giovane Werther d’ogni tempo.

La pubblicazione del diario, con le sue confessioni e il suo arrovellare insistito sulle donne e gli scacchi sentimentali, faceva ancora gridare al movente sentimentale.

Alcuni nomi venivano ripetuti: Tina Pizzardo, la donna dalla voce rauca, come Pavese la consacra. L’amore per la donna gli aveva fatto credere di poter imparare il mestiere di vivere, per uno scopo che non fosse soltanto il lavoro. Il tradimento di lei (mentre Pavese è al confino, la Pizzardo sposa un altro) segnerà dannatamente il poeta: nella vita di Pavese si delinea con drammatica chiarezza un prima e un poi. Le altre donne della sua vita sono l’occasione per sfogare il suo livore, diventano pretesto per il suo disprezzo.

Verso la fine del ’40, nella vita di Pavese entra Fernanda Pivano. Per cinque anni, Pavese e Pivano si vedono tutti i giorni. D’improvviso, mentre continuano a trattarsi col “lei”, lo scrittore le chiede di sposarla. Fernanda è giovane e lontana da quel pensiero. Possiamo immaginare la sua risposta.

La terza volta. Pavese torna a sentirsi innamorato quando entra nella sua vita Constance Dowling, viso malizioso disseminato di efelidi, molta cultura e smisurata ambizione. Lo sa capire anche nelle allucinazioni perché è estrosa e imprendibile. Ma, appunto, è imprendibile: anche Constance lo abbandona e anche lei corre da un altro uomo.

Il filo rosso delle sue opere potrebbe essere il desiderio della donna. Questa ansia che si leva perenne (e perennemente mancata) è, però, legata all’ostinata volontà di Pavese di autoflagellarsi o di bestemmiare alla solitudine. Il poeta è tormentato dal bisogno di tenerezza, ma anche da quello di farsi del male.

Pavese ha inseguito la donna tutta la vita fino a perdere il fiato nell’affanno per non poterla afferrare. Aveva una sicurezza: non avrebbe mai trovato la sua donna. La coscienza della sconfitta gli vietava qualsiasi felicità, pure breve. Incontra una donna, si innamora, ma, di colpo, la diffidenza amara. Mentre le cammina accanto, si sente già solo. Per lui è già l’addio, la fuga. Il no è sempre di Pavese, non della donna.

Non è stato un suicidio d’amore, perché nella relazione con le donne Pavese avvertiva di essere lui stesso il suo limite. Non lo è stato, perché il dolore era imprecazione spavalda, empia, ma vitale; lontana dal lento e freddo logorio che prenderà Pavese al termine della parabola.

La storia critica ha fatto emergere diverse proposte, tutte volte a spiegare il suicidio di Pavese. La tragica decisione non poté derivare da una sola causa, perché molteplici erano gli interessi e le ambizioni dell’uomo e dello scrittore. Si uccise per amore? per politica? per esaurimento nervoso? Queste cause sono tutte possibili e nessuna sufficiente. La colpa fu delle circostanze, e delle persone che la determinarono, e fu sua, ma né lui, né le circostanze, né le persone furono risolutivi.

 

«Porta la sua solitudine come un richiamo d’amore. La sua tragedia fiorisce elegia».

 

Fonti: Cesare Pavese, Tra donne sole, in Id., La bella estate, Torino, Einaudi, 1950; Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, Torino, Einaudi, 1952; Geno Pampaloni, Trent’anni con Cesare Pavese. Diario contro diario, Milano, Rusconi, 1981.

 

Credits (freeimages): immagine

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