DOSSIER | La scintillante industria della moda

A Milano è tempo della settimana della moda che, insieme a quelle di Parigi, Londra e New York, è la più seguita e più famosa al mondo. D’altra parte, il capoluogo meneghino fin dall’Ottocento è la capitale mondiale dell’industria tessile, e qui molti dei più grandi stilisti della storia hanno potuto crescere e lanciare i loro brand di lusso. Ma, specialmente negli ultimi anni, fashion non significa più dispendioso: i centri storici di ogni città occidentale e i loro palazzi più lussuosi sono stati letteralmente invasi e conquistati dalle catene low cost tanto che si è arrivati a parlare di omologazione delle metropoli mondiali e perdita delle loro identità. Se, infatti, Milano si distingueva da Parigi e da Londra per le boutique particolari che vendevano capi tipici e introvabili in nessun altra parte del mondo (ecco perché lo shopping milanese è così celebre), oggi tutti i negozi presenti a Milano potete ritrovarli tranquillamente a New York, a Barcellona, a Praga, pur con minime differenze dovute ai diversi mercati.

A sinistra un pezzo della collezione di Celine; a destra la “versione” marcata Zara

 CONCORRENZA SLEALE

Si chiama Fast Fashion, letteralmente “moda veloce”. E non si tratta solo di traduzione: l’obiettivo che si pongono i brand appartenenti a questa categoria dell’industria della moda è quello di produrre il maggior numero possibile di collezioni in un anno. Alcune case, come quelle del gruppo Inditex o H&M, hanno infatti creato un nuovo bisogno ai consumatori, facendo comprare i prodotti poiché non garatiscono loro la certezza di ritrovarli in un breve lasso di tempo: è per questo che, in alcuni casi, la mattina presto si trova la cosa da Zara o da Mango. A differenza della High Fashion, che produce due o massimo tre collezioni annue, le catene più conosciute arrivano a presentare nei negozi fino ad una collezione a settimana, che molto spesso riprendono lo stile e il design visto sulle passerelle e nelle boutique di lusso. I brand Inditex, H&M o OVS hanno infatti studiato un modo per capire subito quali sono i pezzi chiave di una collezione e la riproducono velocemente, usando materiali più economici per metterla in vendita a prezzi stracciati e accessibili a tutti: in questo modo ognuno di noi può sentirsi sempre alla moda, con indumenti dallo stile ricercato; mentre le aziende guadagnano sempre di più.

LA VERITA’ SUI SALDI

Ma pensare che soltanto i brand di moda low cost abbiano metodi di produzione discutibili sarebbe sbagliato. Tutta l’industria della moda gioca sporco. Andando con ordine, parliamo di un fatto che sicuramente lascerà di stucco coloro che, amanti del risparmio ma sempre alla moda, credevano di aver fatto grandi affari negli Outlet. Questi centri sono nati con lo scopo di riproporre capi di lusso a prezzi stracciati, di solito di collezioni più vecchie, ma sempre con un alto grado di qualità la cui certezza è data dal fatto che si sta acquistando – anche se “vecchio” – un capo dalla ottima fattura. Purtroppo non è così: molti dei capi esposti, così come anche alcuni capi messi in saldo, in questi paradisiaci centri per meno abbienti hanno visto solo quel negozio in tutta la loro esistenza.

Al di là di quanto si possa credere, spesso i vestiti degli outlet non provengono affatto da un normale negozio ma sono stati prodotti in uno stabilimento differente

Jay Hallstein, The Myth of the Maxxinista

I capi “da outlet” vengono disegnati e progettati da persone chiamate apposta e fabbricati addirittura in altri stabilimenti rispetto agli abiti standard. Tra questi brand rientrano nomi come J. Crew e Gap.

DISASTRI

Nel 2014 il quotidiano norvegese Aftenposten ha lanciato Sweat Shop, una sorta di documentario impostato come reality show nato per raccontare alla giovane popolazione norvegese da dove vengono i capi di uno dei marchi più da loro più comprati. Tre fashion blogger scelte sono state mandate in Cambogia a vivere come coloro che producono i capi del colosso H&M, che appunto in quel Paese concentra la sua produzione maggiore. I tre hanno vissuto nelle stesse condizioni dei “sarti” del brand svedese per un mese, condividendo le stesse abitazioni cadenti, in situazioni dalle condizioni igienico-sanitarie da tirarsi i capelli. Come è noto – e non solo per le aziende tessili – i paesi cosiddetti in via di sviluppo rappresentano un terreno fertile per le ricche multinazionali Occidentali, in quanto le norme lavorative sono differenti rispetto a quelle più “rispettose” cui si è arrivati nelle loro terre natali e quindi possono produrre di più spendendo di meno. In Cambogia, infatti, le persone assunte per tessere abiti H&M lavorano fino a 18 ore al giorno, in stabilimenti spesso senza finestre e dalla struttura tutt’altro che sicura.

È incredibilmente frustrante che una grande catena di abbigliamento abbia così tanto potere da spaventare e condizionare il più importante quotidiano della Norvegia. Non c’è da meravigliarsi: il mondo è così. Ho sempre pensato che nel mio paese ci fosse libertà di espressione. Mi sbagliavo.

Sono parole di Anniken Jørgensen, una delle tre partecipanti al reality che al tempo aveva 17 anni, preoccupata più che delusa dal fatto che – molto probabilmente sotto intimidazione del colosso svedese – del progetto cui lei aveva partecipato sia stato pubblicato e senza troppi sponsor solamente un piccolo video e pure dall’imposizione ricevuta dallo stesso quotidiano di non raccontare nulla di ciò che aveva visto e vissuto. Non contenta e per niente intimidita, la ragazza ha sfruttato il blog e il fatto di essere seguita da un certo numero di persone, raccontando in diversi articoli la sua esperienza, non omettendo nessun nome tra le aziende coinvolte e arrivando ad essere addirittura contattata da H&M, che ha promesso che avrebbe migliorato le condizioni di vita dei propri operai.

Il danno si aggrava andando ad analizzare i materiali usati nella realizzazione di questi capi: acrilico, viscosa, poliestere. Sono per lo più prodotti chimici, compresi i colori usati per verniciare i prodotti, che vengono poi scaricati nei fiumi dove solitamente sono situate le fabbriche. Gli stessi corsi d’acqua che poi vengono usati per irrigare i campi e la cui acqua viene estratta dai pozzi: insomma inquinamento ambientale decisamente tossico per la popolazione.

Questo metodo di produzione tuttavia non riguarda solamente la moda low cost. Infatti tutto il mondo è paese, e così in Cambogia o in Bagladesh – dove il 24 Novembre 2012 uno stabilimento di, tra gli altri, Piazza Italia e Walmart è crollato e ha causato più di cento morti senza che i brand indicati a distanza di cinque anni abbiano ancora risarcito le famiglie – o ancora in Indonesia, Vietnam, India e in generale tutto il sud est asiatico; in questi luoghi possiamo trovare sia OVS sia Tommy Hilfiger, Moncler (già incriminata dagli animalisti per i metodi poco gentili per ottenere la piuma d’oca in Ucraina), Dolce&GabbanaPrimark; e non dimentichiamoci di Armani. A proposito: volete sapere quanto costa la produzione di una sua giacca dal valore di 500€? Circa 3,80€.

In generale se un’azienda spende anche, mettiamo, 8€ per la realizzazione di una maglietta, il lavoratore che l’ha realizzata guadagnerà ben 24 centesimi.  In alcuni casi, come nel caso dell’India del Sud, se sono donne a lavorare, otterrano il loro stipendio solo dopo aver lavorato dai 3 ai 5 anni e solamente per poter pagare la dote al marito.

Mentre una modella viene pagata da questi stessi brand dai 3 ai 5 milioni di dollari. Mica male.

IL “METODO ZARA”

Il gruppo Inditex, il cui marchio più redditizio è senza dubbio Zara (ma comprende anche Bershka, Desigual, Massimo Dutti, Oysho, Pull&Bear, Mango e Stradivarius) ha un metodo tutto suo nella produzione. Pur non essendo esente nemmeno lei da sfruttamento dei lavoratori negli stessi paesi degli altri brand – e a questo proposito ha dichiarato di tracciare ogni capo sull’etichetta per uscire dalla lista incriminata – Il 50% dei suoi capi d’abbigliamento vengono infatti realizzati in Europa, principalmente in Spagna dove ha sede l’enorme holding. Sembrerebbe quindi una situazione migliore all’apparenza, che renderebbe il gruppo spagnolo degno di lode. Peccato che la produzione avvenga in piattaforme dalla dimensione totale di 1 milione di metri quadrati situati a largo della costa spagnola, specialmente quella nordatlantica. Ma ne sono presenti anche altre nel mediterraneo e alcune a largo della Cina. Il motivo per cui Zara ha scelto di produrre a largo delle coste europee, oltre a quello di risparmiare su eventuali tasse e impedire controlli concreti, è perché tutti i martedì lo store manager di ogni negozio Zara in qualsivoglia città manda una relazione dettagliata su ciò che si vende di più ma, soprattutto, sulle principali richieste dei clienti che non potrebbero essere rese realtà acquistabili appena 1 o 2 settimane dopo se il grosso della produzione fosse nell’estremo Oriente come avviene per i già citati concorrenti.
Questo metodo ha fatto sì che nel 2011 – in pieno momento di crisi economica proprio in Spagna – il colosso iberico fatturasse 14,8 miliardi di euro, raggiungendone poco meno di 21 nel 2015.

Non fanno da meno anche alcuni marchi italiani, che spesso sfruttano non nei paesi in via di sviluppo ma proprio in madrepatria. E nemmeno le tedesche Adidas e Puma o l’americana Nike sono esenti da questo giro: le scarpe sportive ma dal design ricercato di questi amatissimi marchi, cui dedicano collezioni anche icone pop del XXI secolo (Rihanna per Puma, Rita Ora e Pharrel Williams per Adidas), sono note per far realizzare i loro costosi prodotti ai bambini, in cina.

CONCLUSIONE

In conclusione, l’industria della moda è tra le più sporche, specie quando gioca sulla non alta disponibilità economica della maggior parte della popolazione che, però, non vuole rinunciare ad essere sempre sul pezzo e per essere accontentata grava sulla vita e sulla salute di migliaia di altre persone. Si può però ovviare al problema cercando brand molto meno noti che però esistono e in questa società super veloce portano avanti le tradizioni del cucito e dell’artigianato tessile, spesso creando prodotti con le loro stesse mani o, anche se hanno spostato la produzione in India o in Cina, a ritmi e livelli che potremmo considerare “occidentali” e quindi umani. Produrre in altri paesi per spendere meno, infatti, non è sinonimo di sfruttare quelle popolazioni (anche se la maggior parte delle aziende lo fa). Per un’azienda europea o americana, infatti, è importante tenere conto del valore di una moneta. E se un valuta come quella indiana o cinese valgono molto meno di Euro e Dollaro, è possibile risparmiare sulla produzione senza necessariamente ridurre in schiavitù i lavoratori perché un loro stipendio dignitoso e adatto al costo della vita  è comunque meno costoso rispetto a quello di un Occidentale.

Ancora meglio sarebbe girare per la propria città e scoprire i pochi rimasti a cucire da soli i vestiti che producono anche se è effettivamente difficile specie per i giovani eliminare completamente la scelta dei negozi fast fashion in quanto un prodotto artigianale è sicuramente unico, ma proprio per il processo più curato e per la manodopera nella maggior parte dei casi, per non dire sempre, risulta avere un prezzo alto.

Quello che è possibile fare è, però, ridurre lo shopping ai saldi, comprando meno ma cercando di comprare meglio, arrivando a pensare di sensibilizzare queste aziende che vedendo il trend dei consumatori potrebbero davvero investire e migliorare le condizioni lavorative di chi cuce e assembla per loro.

 

FONTI:

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