il campo di pomodori – parte II

di Andrea Piazza

Dopo l’estenuante attesa del bagaglio, peraltro minuscolo al confronto di tutti gli altri, mi trascino
stancamente verso l’uscita. Cerco un taxi e fortunatamente devo aspettare ben poco.
“E’ libero?” – chiedo, in un italiano stentato.
“Prego”
Mi dirigo verso Milano sotto la guida di un uomo di mezza età, dalla pelle olivastra e gli occhi
profondamente incavati. Credo provenga dal Sud, ma non è facile distinguere gli accenti.
Scambiamo in tutto cinque o sei battute, poi mi chiudo nel silenzio e cerco di riposarmi
affacciandomi al finestrino. Il taxi sfreccia in autostrada, costantemente in corsia di sorpasso. Il
primo sguardo che getto sul mio Paese d’origine mi regala un’immagine identica al Paese che mi ha
accolto – auto che corrono freneticamente, chilometri e chilometri di strade, qualche fabbrica, e
poco altro. Ogni tanto il tassista mi lancia uno sguardo dallo specchietto retrovisore, come a cercare
compagnia. Vorrei proprio scambiare qualche parola, ma sento di non avere nulla da dire.
Ho un disperato bisogno di stendere la gamba, e cerco allora di sfruttare tutto lo spazio disponibile.
Questo mi dà un po’ di sollievo, dato che ancora non ho preso le pillole. Tasto il ginocchio
attraverso i jeans. Con le dita trovo la cicatrice, proprio sopra la rotula, e sento il lieve gonfiore tutto
intorno.
Torno a guardare la strada. D’un tratto prendo le Fisherman, e via altre due.
Il tassista mi guarda di nuovo nello specchietto.
“Ha problemi alla gola?”
“Come, scusi?” – ha parlato velocemente, e non ho colto la frase in pieno.
“Dicevo, ha problemi alla gola? Vedo che continua a buttar giù caramelle”
“Ah, queste?” – mi concentro per trovare le parole giuste. “No, non sono per la gola. Mi piacciono
molto, tutto qui. Ne vuole una?”
“No, no, per carità…non dovrebbe mangiarne così tante, che poi le si cariano i denti. Sa quanto
costa un dentista oggi, li paghi a peso d’oro, me lo lasci dire…”
“Non abito qui, sono americano”
Mi guarda con sospetto – o così mi pare – voltandosi leggermente col capo.
“Allora è anche peggio, mica potete andarci quando volete dal medico. Ogni cosa ha il suo prezzo.
Sarete anche i padroni del mondo, ma intanto se state crepando dovete cacciare i soldi, ecco come
vanno le cose, dico bene?”
Non rispondo, anche perché mi sono perso il senso di tutto il discorso. Mi limito a prendere
un’ultima Fisherman prima di metterle via.
Nel giro di mezzora entriamo in città. Non sono mai stato a Milano, se non di sfuggita – la guerra
era appena finita, e nel giro di qualche giorno sarei espatriato. Una formalità. Anche questa volta,
d’altra parte, non sarà che un momento di passaggio. Voglio andare subito in stazione per prendere il
treno. Chiedo all’autista di lasciarmi vicino al centro, ho bisogno di camminare e dirigermi da solo
dove voglio andare. Fa decisamente più caldo di quanto pensassi, c’è un umidità persistente che in
pochissimo tempo mi impregna la pelle e, ancor peggio, spegne la mia mente come acqua sul fuoco.
Mi sento ingolfato come il motore di un’ auto rimasto fermo troppo a lungo.
E’ quasi l’una e il centro è semideserto. Mi stupisce un po’ questa solitudine. Mi immaginavo le vie
piene di turisti, di gente che si sposta per lavoro. Forse era solo un pregiudizio, un’immagine
stereotipata. Non mi disturba vedere le vie quasi vuote. Mi fermo nella piazza del Duomo, per
riposare e guardarmi attorno. Quando il caldo diventa insopportabile mi alzo e proseguo. Cammino
per le vie chiedendo indicazioni – il più delle volte ricevo qualche parola frettolosa e imprecisa. In
qualche modo però arrivo alla stazione Centrale. Mando giù due Fisherman.
Alle 16.35 prendo il treno per Pavia. Orientarmi non è stato semplice, ma me la sono cavata. La
carrozza è affollata, i finestrini del treno Locale (mi pare si chiami così) sono abbassati per lasciar
entrare più aria possibile. Con qualche minuto di ritardo il treno parte.
Di fronte a me siedono due ragazze. La prima, potrà avere venticinque o trentanni, sorseggia un tè e
ogni tanto mi lancia un’occhiata alzando appena lo sguardo dal libro. Ha i capelli castani, raccolti in
una treccia che le ricade sulla maglietta.
Di fianco a lei, voltata di tre quarti verso il finestrino, è seduta l’altra ragazza. Potrebbe essere mia
figlia; ma curiosamente i suoi capelli castani, lunghissimi e incredibilmente lisci, mi ricordano mia
madre. Quand’ero piccolo li portava raccolti in un foulard; e quando li svolgeva, era come se
liberasse un fiume incastrato tra le rocce, un puro e limpido torrente di montagna.
Questa ragazza, questa mia figlia che sembra mia madre, non volge mai lo sguardo nella mia
direzione. Forse perché sono io a fissarla con troppa insistenza.
Cerco di distrarmi. Devo ammettere che il viaggio in treno, nel mio povero immaginario di
straniero, perché questo sono ormai per il mio Paese, doveva rappresentare un momento
fondamentale. Mi aspettavo un non-so-che. Mi accorgo invece che è tutto perfettamente normale, e
potrei trovarmi in Francia come in Spagna come in ogni altro Paese d’Europa.
Mi sento a casa, nel senso che è come trovarmi nel luogo in cui abito, come se mi stessi spostando
per un breve incarico di lavoro fuori città; e in un certo qual modo mi sento il più lontano possibile
da casa. Come se quel luogo su cui così a lungo ho fantasticato si fosse rivelato poco più d’un
sogno; come se toccando quell’immagine immateriale l’avessi ridotta in briciole davanti ai miei
occhi – infiniti coriandoli dispersi nel vento.
Il viaggio non dura molto. Non riesco a togliere gli occhi dalla ragazza seduta di fronte a me. Non è
particolarmente bella, fatta eccezione per i capelli; ha un viso spigoloso e duro, con un mento
pronunciato, e un neo sulla guancia destra.
C’è sempre questo istinto che mi guida in certi momenti, e che non so mai spiegare alla mia
coscienza. Come quel gesto di tapparsi le orecchie, che mi capita di ripetere ogni tanto. Come tirar
fuori le Fisherman e divorarle a due a due – ecco, ora che ci penso, è meglio che prenda di nuovo il
pacchetto. Non è così vero che le adoro; non è così vero che mi piacciono da morire.
Guardo ancora la ragazza mentre richiudo il pacchetto e mi sistemo sul sedile. E’ tutto
estremamente scomodo e mi chiedo perché sia venuto fin qua quando potevo tranquillamente
rimanere a casa. E’ stata un’idea stupida, stupida.

 

 

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