L’acquario di Rosalinde, e di tutti

«Allora decisi di andarmene. Non so come spiegartelo, non è stata una decisione di quelle che si prendono dopo lunghi e sofferti mesi di riflessione. Semplicemente me ne sono andata. Le conosco quelle scelte che si vogliono prendere da una vita, ma che non si concretizzano mai. La mia esistenza ne era costellata e io mi sentivo sempre così incapace di attuarle. Il mio progetto di fuga non ha niente a che fare con questa inettitudine che mi rendeva me. Non ho deciso di andarmene per dimostrare qualcosa a me stessa.»

«Se non per questo, allora per cosa?»

«Tu riesci a trovare risposte a domande come: perché sto crescendo? Perché i miei capelli non smettono di allungarsi? Come mai quest’acqua fresca mi fa stare così bene? Perché ho ancora voglia di baciarti? Insomma… è stato naturale. Uno spontaneo quanto necessario svolgersi di eventi inattesi ma inevitabili: ho individuato le poche cose davvero importati, le ho prese e me ne sono andata.»

«E tutto quello che avevi? La tua vita? La tua famiglia? Il tuo passato? Abbandonati così, senza rimpianti o rimorsi?»

«Io amavo tutti, davvero. Adoravo tutto della mia vita, ma in modo triste. Sei mai andato a visitare un acquario? Ci sono quei pesci così regali, nobili, meravigliosi nelle loro sinuosità subacquee, colori sgargianti. Tutto è immerso nell’aria di un giorno di festa in cui finalmente si fa qualcosa di diverso come osservare esseri in teche di vetro, che boccheggiano compiendo sempre i soliti giri… ti ci affezioni a quelle creature, provi come un affetto immediato nei loro confronti. Così amavo le cose della mia vita. Ero grata di quella bellezza da giorno di festa, ma avvertivo un sentimento molto simile alla pietà verso chi, come quei pesci, non faceva altro che accontentarsi di compiere sempre i soliti tragitti quotidiani. Mi accorgevo di quanta malinconia fosse racchiusa nella bellezza e negli occhi di ogni persona della mia vita. Scorgevo in loro lo stesso desiderio di essere da un’altra parte. Desiderio che riempiva gli occhi delle creature acquatiche. Detto questo, non me ne sono andata per scappare da questa sensazione. Mi accompagna inevitabilmente anche oggi, e io la coccolo, meritandola come una punizione per non essere stata in grado di spiegarla alla mia famiglia, e di accettarla nel passato. Comunque non ho dimenticato niente e nessuno, solo tutto ha smesso di farmi così tanto male perché sono uscita da quell’acquario.»

«E dove sei finita quando sei sparita?»

«Oh, questa è la parte più interessante. Il primo mese ho vissuto in treno. Salivo, scendevo, cambiavo, dormivo nelle cuccette e non mi fermavo mai per più di due ore, da nessuna parte. In ogni stazione compravo del cibo e una macchina fotografica usa e getta e poi scattavo foto ai treni: vagoni, sedili, locomotive, porte guaste… talvolta binari. Raccoglievo tutte le macchine fotografiche in un sacchetto. Non credo che le farò mai sviluppare.»

«Perché?»

«Innanzitutto perché quel sacchetto è andato perduto e poi perché saranno state delle foto orribili! Rimarrei delusa nel constatare l’abissale differenza tra l’immagine che ho voluto catturare e la sua vera sembianza nella realtà.»

«Non lo so se ti capisco. Comunque, dopo questo mese?»

«Dopo questo mese sono arrivata in un campo di nomadi. Ricordo il momento in cui sono uscita dalla stazione. I miei passi non erano controllati. I piedi, decidevano loro dove portarmi. Un mese su treni e in stazioni e poi eccomi di nuovo fuori: il tempo del viaggio era finito. Il campo era lì, proprio di fianco alla stazione. I primi tre giorni mi hanno accettato. Mi facevano dormire in una roulotte, insieme a una famiglia poco numerosa, la sola con così pochi membri in tutto il gruppo. Padre, madre, nonna e quattro figli, tre maschi e una femmina: Rosalinde. Io mi proponevo per fare qualsiasi cosa, per aiutare in qualsiasi faccenda che riguardasse la famiglia, o tutta la comunità; non mi tiravo indietro, nemmeno quando mi proposero di andare a mendicare per strada insieme a Rosalinde. Eppure già dopo il terzo giorno avvertivo una pungente insofferenza nei miei confronti. Tra di loro parlavano la loro lingua e io non potevo in alcun modo capire. Ero diversa. Facevo di tutto per andare loro a genio, non saprei nemmeno dirti perché; perché continuavo a restare lì pur sentendomi inadeguata; perché non volevo andarmene per nessuna ragione; perché faticassi così tanto per essere integrata in un mondo che coltivava valori che non corrispondevano nella maniera più assoluta a quelli con cui ero stata abituata a vivere. Sceglievo di stare lì, così come ho deciso di andarmene da casa, senza motivo apparente, semplicemente perché sentivo che così dovessero andare le cose, e io dovessi rispettarle. Mi lasciavo guidare dalla nuova corrente del mare aperto.»

«Come si comportava la gente nei tuoi confronti?»

«Mi schifava sempre di più. Mi allontanava, mi insultava, senza che io potessi davvero capire cosa dicesse. Un giorno trovai tutti i miei vestiti, quelli che mi ero portata da casa, strappati e lacerati, abbandonati nel fango in uno spiazzo del campo, tra la roulotte in cui dormivo e la piscinetta dove giocavano i bambini. Lo fecero perché volevano che me ne andassi, ma non mi mandavano mai via effettivamente. Non mi accettavano, ma non mi cacciavano.»

«No, ma io intendevo la gente… come noi. Quella tra cui andavi a mendicare e che fino a poco tempo prima era la tua gente.»

«Oh beh, con loro era anche peggio. Per “la mia gente” ero semplicemente invisibile. Lì appoggiata al muro della stazione, Rosalinde di fianco a me che saltellava di tanto in tanto, improvvisando una danza gitana; non ero nessuno. E ti assicuro che questo era molto peggio che trovare i miei vestiti massacrati nel fango. Faceva più male, era più imbarazzante, era insopportabile. Avrei voluto alzarmi e gridare a tutti in faccia: “Sono una di voi, sono come voi, sono voi!” Ma non l’ho mai fatto, perché in fondo non ero davvero sicura che fosse così. Non ero più parte di niente. Ero esclusa dal mio passato, dal mio presente… solo il futuro poteva accogliermi. E mi parlò attraverso Rosalinde. Eravamo nel nostro solito posto, quello a noi assegnato per l’elemosina. Lei aveva il fiatone per la danza appena terminata, danza che non aveva notato nessuno, nonostante la bellezza che i suoi vestiti colorati, nella luce, proiettavano girando. Sapeva la mia lingua quel poco che bastava per farsi capire. “Me ne voglio andare” disse, senza piangere, da adulta, guardandomi dritta nelle pupille. Le chiesi le stesse cose che mi hai chiesto tu all’inizio di questa conversazione. E lei mi diede le stesse risposte. La sua vita era come un acquario, bello e triste, e non sapeva davvero il perché, non ci aveva mai pensato davvero, ma come una folgorazione sapeva semplicemente che doveva andarsene. La presi per mano; con le monete che avevamo raccolto quel giorno comprai una macchina fotografica usa e getta, e insieme salimmo su questo treno.»

«Ma ora… lei adesso dov’è?»

«Non lo so, vaga per i vagoni, si chiamano così per questo no? Sono fatti per vagare. È libera.»

«Pensate davvero di essere libere? Voi siete sole! Dovreste trovare qualcuno che vi ospiti, un posto che vi appartenga.»

«Un nuovo acquario? Il tuo qual è?»

A cura di Federica Tosadori

 

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