Loveless e la desolazione emotiva della Russia contemporanea

Dopo Leviathan, che gli valse il Golden Globe per il miglior film straniero e una candidatura all’Oscar, Andrej Zvjagincev è tornato quest’anno al Festival di Cannes con un film, un altro, sulla sua Russia. Con Loveless il regista ci presenta una realtà dolorosamente apatica, in cui viene negato addirittura il più intimo ed umano dei rapporti, ovvero quello tra genitori e figli.

Come in Leviathan è il paesaggio ad entrare per primo in scena, un paesaggio tipicamente russo, glaciale e caratterizzato da un iniziale innaturale silenzio che viene interrotto prima lentamente e poi incessantemente da un pianoforte: il silenzio è così sconvolto. In quella natura che pare perfetta  in maniera inquietante, troppa armonica, dirompe infatti una musica sempre più disarmonica che conferma il presentimento tragico. In questi luoghi, sembra sottolineare la musica, non c’è spazio per apparente tranquillità, sono infatti destinati alla tragedia.

Ed è proprio camminando qui, mentre torna a casa da scuola, che incominciamo a conoscere una delle figure fondamentali del film, ovvero Alyosha, un ragazzino di dodici anni che in quella foresta sparirà per sempre: scopriamo infatti che la sua situazione familiare è al limite del sopportabile. La madre Zhenya e il padre Boris provano un odio viscerale l’uno nei confronti dell’altra, e sono infatti in procinto di divorziare. Sono però costretti a convivere ancora insieme finché non troveranno un acquirente per l’appartamento che condividevano. Questa situazione forzata porta ad inevitabili litigi, caratterizzati però da una violenza verbale, soprattutto della madre, e da un’apatia fuori dal comune più tipica del padre.

I due non solo si odiano, ma odiano sé stessi, odiano la loro vita, odiano addirittura quel figlio che, non riuscendo a dormire, sta ascoltando ogni singola parola che stanno dicendo ed è dolorosamente costretto a sentire i propri genitori attribuirsi vicendevolmente la colpa, perché nessuno dei due lo voleva: sarà meglio quando andrà al collegio e sarà militare, così finalmente non dovranno più pensarci e potranno rifarsi una vita.

Capiamo fin da subito dunque il motivo del titolo: quella di Alyosha è una famiglia senza amore – loveless appunto-, quasi ai limiti dell’indifferenza, se non fosse per l’odio profondo che viene esternato tramite le urla. Colpisce in maniera particolare la violenza della madre, il suo distacco pragmatico e dolorosamente calcolato, che insieme a quella che sembra una totale assenza del padre, porta inevitabilmente alla fuga di Alyosha.

Con le incessanti ricerche per ritrovare il ragazzino – destinato altrimenti alla morte in quella stessa foresta ghiacciata presentataci all’inizio – i movimenti di camera, gli sguardi, i silenzi sottolineano ancora di più la lontananza dei genitori da un figlio che non conoscono. Paradossalmente, sembrano più interessati a ritrovare il ragazzino i soccorritori, che non Zhenya e Boris, più impegnati a darsi vicendevolmente la colpa dell’accaduto, l’ennesimo impedimento che non permette di andare avanti con le loro vite.

Se lentamente però si incomincia a pensare che la tragedia stia effettivamente cambiando i due genitori, che li stia rendendo più consapevoli: questa non è che un’illusione dello spettatore – o forse una sua speranza. La loro sostanziale lontananza emotiva, la loro psicologia è radicata nel loro modo di essere, è quasi imposta da quei luoghi che li circondano. Sono personaggi tragici – ma reali – condannati alla totale assenza di amore, in una società che in un qualche modo aiuta il loro distacco, creando genitori inadeguati, anzi dannosi, poiché determinano un’intera generazione di figli infelici, vuoti.

Sembra dunque questa sia una totale accusa di Zvjagincev, che mette in luce, in maniera documentaristica, uno degli aspetti più intrinseci della cultura russa contemporanea, e forse anche il più doloroso e pericoloso, ovvero l’assenza di amore.

Credits:
Immagine © Mubi, 2017

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