Come muore un cavaliere: Orlando secondo Ariès

L’uomo davanti alla morte: per noi un enigma, una fonte di angoscia e disperazione, ma non è sempre stato così. L’uomo davanti alla morte è anche il titolo di uno dei saggi di Philippe Ariès, all’interno del più ampio Storia della morte in Occidente, enciclopedia storiografica del rapporto dell’uomo occidentale con la morte. La morte è per noi un’interdizione tanto quanto per i medievali era un naturale elemento della vita. Regolare e normale, quasi ovvia, parte di un ciclo che necessariamente termina con la morte. Tanto quanto inizia con la vita. Proprio per questo non è fonte di angoscia o ansia, ma anche perché in quanto elemento di norma è essa stessa normata, con le sue regole e riti. La morte medievale, per niente spaventosa, ma, con le parole di Ariès, addomesticata, ha una serie di componenti che emergono da quei cantari che sono enciclopedie morali dell’epoca, come i poemi epici per l’antichità, e che ci permettono di comprendere la mentalità di quegli uomini per noi così lontani.

La domanda che si pone Ariès ed alla quale rispondiamo è: come muore un cavaliere? Il cavaliere della chanson de geste evidentemente non rappresenta la totalità degli uomini del Medioevo ma sicuramente ne rappresenta il modello al quale tutti questi tendevano, colui che ne realizzava aspirazioni ed ideali. Per questo il modo in cui un cavaliere muore esemplifica il rapporto che vigeva fra l’uomo e la morte durante il Medioevo. Per affrontare la questione prenderemo ad esempio la più celebre morte del Medioevo: quella di Orlando nell’omonima Chanson. Il fatto, celeberrimo, è raccontato dalla lassa CLXVII alla CLXXV. Breve riassunto per gli smemorati: Gano ha tradito l’esercito di Carlo Magno vendendolo agli arabi. Orlando è a capo della retroguardia dell’esercito e viene colto da un’imboscata dei saraceni al passaggio della gola di Roncisvalle. I franchi si battono con valore ma non possono vincere, tutti i nobili soldati vengono sconfitti e cadono uno dopo l’altro, e con loro Orlando. Ma la morte di Orlando non è come quella di tutti gli altri perché è epifenomeno della morte di tutti.

Primo elemento: la morte non giunge all’improvviso, non irrompe di sua sponte nella vita dell’uomo, ma si annuncia, lascia tempo a questo di prepararsi e regolare i propri conti con gli uomini e con Dio, infatti Orlando sente la morte stargli presso (CLXVII, 2259). Il sentore che avverte il cavaliere non è magico o soprannaturale, è intimo, è una coscienza data dalla familiarità con la morte, che fa parte dell’uomo e non gli è esterna, gli è presso. Ovviamente regolare i conti con Dio è la prima urgenza per un uomo del Medioevo ed infatti è la prima cosa che fa Orlando, già assolto dai suoi peccati prima della battaglia dall’Arcivescovo-guerriero Turpino, che ha assolto l’intero esercito. A Dio d’accogliere i suoi compagni chiede / e per sé prega poi l’angelo Gabriele (2261-2262). Il cavaliere pensa a tre cose in una sola preghiera: Dio, i suoi compagni e sé stesso. Perché questo è l’uomo medievale: non un individuo scisso dalla società come quello moderno, ma una persona dai confini sfumati che accoglie in sé i propri compagni, e per estensione tutta la società, ma anche Dio ed il ricordo di ciò che individualmente era.

Dopo aver sbrigato le faccende celesti bisogna compiere quelle terrene. E qui il celebre momento della tentata distruzione di Durendala, la sua formidabile spada, per non farla cadere preda dei saraceni, che occupa le lasse CLXX-CLXXII. Le tre lasse ospitano tre lamenti verso l’indistruttibile spada che invece che spezzarsi contro le pietre infrange quest’ultime. Ah! Durendala, come sei chiara e bianca! (CLXXI, 2316) Orlando quasi piange la perfezione della sua compagna e tramite lei ricorda le sue conquiste e i servigi resi a Carlo. È questo infatti il secondo momento della morte rituale: dopo aver pregato Dio ed averne ricevuto perdono, l’uomo piange e ricorda la sua esistenza terrena lasciandosela per l’ultima volta alle spalle, senza biasimo. Allorché si pone nella giusta posizione: se ne va subito sotto un pino correndo / e qui si corica, steso sull’erba verde. (CLXXIII, 2357-8) Il cavaliere muore disteso con le mani giunte in preghiera, se a casa circondato dai suoi cari, se sul campo di battaglia accanto alla spada. La morte non coglie di sorpresa ma giunge come un ultimo sonno, lasciando all’uomo la sua dignità.

Il conte Orlando ancora una volta ricorda la dolce Francia, Carlo Magno, i compagni, prega Dio e l’angelo Gabriele e porge il suo guanto al cielo. La sua morte non è come le altre ed infatti succede qualcosa di straordinario: […] San Gabriele qui arriva. / Portano l’anima del conte in Paradiso. (CLXXV, 2395-6) È successo un fatto straordinario, perché normalmente sarebbe dovuto giungere il Giudizio Finale prima che l’anima venisse portata in Paradiso, ma possiamo accettare lo strappo alla regola proprio perché in quanto morte-simbolo è anche la morte perfetta, di un uomo perfetto per il quale non c’è bisogno di attendere l’Apocalisse per decidere se la sua anima valga la Grazia Eterna o meno.

Così quindi muore un cavaliere e così vorrebbe morire l’uomo medievale, o immagina di morire. Nel proprio letto, con le mani giunte in preghiera, ricordando Dio, i propri cari, sé stesso e con i peccati assolti. L’uomo medievale se ne va preso da un sonno per niente traumatico o sconvolgente ma assolutamente familiare, e la morte veramente viene come una vecchia amica.

 

La Chanson de Roland, a cura di Cesare Segre, con traduzione di Renzo lo Cascio, edizione BUR Classici.

L’uomo davanti alla morte, da Storia della morte in Occidente, Di Philippe Ariès, edizione Rizzoli.

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