Conversazione con uno che piscia in piedi

Non voglio i fiori, eh. Lo sai che i fiori non li voglio.
No, dai, ora non dirmi che li hai presi e sei arrivato in ritardo a pranzo per prenderli a me e alla mamma alla Conad sotto l’ufficio. Va bene, già tanto lo so. Ma non roderti così tanto il fegato e lo stomaco per queste cose. Dai! Torna a casa presto e non se ne parla più.

Se vuoi, fammi un regalo domani; oppure ieri; ma ti prego, oggi no, non oggi. Ma poi, tu che sei una persona originale, perché regali fiori oggi come tutti gli altri? Io fossi in te mi sentirei omologato. Tu non ti senti un po’ a disagio? Anche perché, diciamocelo, un regalo (a parte Natale, ma quello si sa, è ok e non è univoco verso un sesso) dovrebbe essere abbastanza spontaneo.

Dovrebbe, sì, uso il condizionale perché spesso non lo è, ma non pensi che sarebbe più originale, che so, festeggiare l’anniversario di matrimonio tuo e della mamma un mese dopo, con magari un’altra data, e andare a cavalcare i cavalli, cucire con i bachi da seta morti da tempo (quanta bellezza dalla morte, eh?) e mangiare budini di latte di capra in una fattoria dispersa nel sud del Molise? Io lo farei, sarebbe originale; e a tutti quelli che ti chiedono: “Allora, dove sei andato con tua moglie per l’anniversario?” risponderesti con le cose che ho citato. Allora lì saresti molto, ma molto figo.

Lo scorso Natale mi hai preso due libri: La figlia del capitano e il Corano. Ho molto apprezzato, davvero. Non li ancora letti, però, hai ragione. Però almeno non appassiscono! Se ne stanno lì buoni, in quella sorta di armadietto quadrato che pende sulla mia testa quando sono a letto.

I fiori muoiono, e io non voglio cose che sono destinate a morire. Ti rendi conto? Pensa di essere quel fiore: pensa di essere una pianta che viene coltivata magari per un anno e poi ZAC! vieni strappato per un giorno e poi appassisci e poi vieni buttato nell’umido – quello che porti fuori tu, alla sera. Pensa! Lo so, di libri ne ho tanti. Allora prendimi un disco: uno di quelli electro swing, o uno di quelli lounge, che mi piacciono tanto e tu non lo sai. Ogni tanto mi becchi in camera, sul letto, con le cuffie e le mutande e la canotta a fare gli addominali: sì, ascolto quella musica, ma su YouTube, non su disco.
Non essere insistente, ora: non prendermi i fiori, non li voglio.

So che ora arriverai a casa con uno sguardo orgoglioso, con il volto sorridente, e la mamma e io non sapremo non ringraziarti per questo gesto; ma è una convenzione, tu lo sai. Io preferisco la festa del papà e la festa della mamma, o i compleanni, o altre cose tipo Pasqua, perché magari ci scappa dentro qualche torta buona o del supermercato, ma poco importa, perché è più sentita. Alle elementari capitava che ti facessi anche dei lavoretti: me ne ricordo uno bello bello, uno con delle braccia di che si aprivano a mo’ di abbraccio, disegnate sul cartoncino. Abbracciami, abbracciami tanto, ma non regalarmi i fiori. I fiori non li voglio. I fiori muoiono, e io non voglio morire. Comprami del cioccolato, che poi lo mangiamo tutti insieme; compra anche delle fragole e dei fichi secchi, così ingrassiamo in compagnia facendoci una bella fonduta con quell’aggeggio che avevo regalato a noi tutti qualche Natale fa.

So già che prenderò il fiore fra le dita e lo guarderò con compassione: povera creatura, mi dico. Non voglio i mazzi di fiori, nemmeno un “mazzolin di rose e di viole” – pure Leopardi non ci capiva un fico secco di fiori. L’unico da cui accetterei fiori è Pascoli, ma vabbè, lui era un giardiniere che scriveva poesie, col grembiule verde tipo quelli del Tuttoverde di Seregno, quello sulla strada. Io me lo sono sempre visto così.

I fiori non li voglio, perché mi fanno sentire fragile. Poi ci sono mille fiori belli e proprio perché sono belli non vorrei mai che fossero strappati. Solitamente i fiori vengono regalati alle donne dagli uomini a loro vicini; ma per me le donne non esistono. Cosa rende una donna donna? Cosa rende un uomo uomo? No, non il fisico, non rispondermi così: lo sai che ho sempre avuto connotati più “maschili” (quanto odio questo modo di esprimere il mio concetto di libertà) rispetto a tante bimbe. Io da piccola volevo essere un maschio, e forse pure ora, non saprei. Io non mi definisco attraverso un genere. Lo sai? Io non mi sento femmina, non mi sento maschio: solo che è brutto notare che quando una ragazza è molto agitata e non ama le bambole venga chiamata “maschiaccio”: non trovi? E poi scusa, dimmi perché sia normale che io indossi i pantaloni e tu non possa usare una gonna: le parti intime devono respirare, su! Le gambe pure; le ginocchia, le caviglie, i fianchi, pure il sedere, che se ne sta lì buono buono e ci si ricorda di lui solo quando ci si siede.

Io non voglio diventare una donnina, una brava donnina, come tu un giorno avevi detto. Io voglio diventare me. Il mio essere non dipende dal mio sesso, dal mio seno (fra l’altro quasi inesistente!), dai miei capelli, che ho appunto tagliati, dai miei abiti, dal mio modo di fare. Indosso i tacchi, è vero, ma chi se ne frega, mi piacciono e io non mi sentirei così terribilmente a mio agio se non li portassi.

Sai? Vorrei non sentire l’obbligo morale di truccarmi quando esco alla sera; a volte non lo faccio, anzi spesso non lo faccio, ma per alcune occasioni, ti giuro, sento come una vocina che dice: “Hey, tu, guarda che già hai delle occhiaie viola fotonico e sei pallida più del marmo bianco, quindi o ti trucchi un po’ o tutti ti vedranno brutta”. Brutta. E però io vorrei essere ricordata nella storia – ho quella velleità che può sembrare (e forse lo è, effettivamente) da persona che se la tira: però, dico, vorrei essere ricordata per quello che ho scritto, ho fatto e ho detto, non per come sono. Non vorrei che fra 679 anni la gente dicesse di me: “Ah, sì, la Ronzoni: com’era bella quella!”; vorrei che si dicesse, invece: “Ah, sì, la Ronzoni: che studi ha condotto sulla letteratura medievale, che commenti oculati ha prodotto, che scrittura poliedrica, che petrarchista meravigliosa, che personalità instabile aveva.” Va bene, forse mi sono gasata un po’ troppo. Mi perdoni? Almeno, io il futuro me lo immagino così, anche se non escludo che finirò sotto terra a marcire senza che un mio scritto rimanga – passerà solo un cane randagio, maschio, che con il suo allegro pene mi piscerà addosso bel contento. Allora avremo una conversazione nostra, io muta, lui che guaisce con la gambetta alzata: meglio che niente. Eh vabbè, almeno sarò servita da latrina per i cani maschi: ci sarà scritto, in linguaggio canino: “Pisciate qui, perché non se la caga nessuno”.

credits

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